Commedia, Fiabesco

PINOCCHIO (2002)

TRAMA

Un “pezzo di legno da catasta” capita nella bottega dell’umile falegname Geppetto, il quale decide di usarlo per costruire un burattino a cui dà il nome “Pinocchio”…

RECENSIONI

No, ragazzi, avete sbagliato. C'era una volta un bel pezzo di Comico. Non era un Comico portato per il cinema, ma un bel pezzo di Comico, di quelli che in qualsiasi momento si mettono su un palco o davanti a una telecamera per accendere l'entusiasmo e per riscaldare le platee. Non so come andasse, ma il fatto gli è che un bel giorno questo bel pezzo di Comico capitò sul set di un regista, il quale aveva nome Giuseppe Bertolucci... il che segnò l'alba, lo zenit e insieme il lento ma inesorabile tramonto della carriera cinematografica del Nostro. Berlinguer ti voglio bene è in effetti un piccolo capolavoro (sfilacciato e diseguale, ma poco importa), che tra slanci surreali e sublimi trivialità 'ingabbiava', senza inibirlo, quell’emblematico Cioni Mario sottoproletario rurale e comunista che Benigni aveva impersonato nei teatri di tutta Italia. Il prosieguo della carriera 'attoriale' di Benigni è complessivamente (con alti e bassi) trascurabile, la carriera “autoriale' davvero deleteria. Eccezion fatta per lo sporadicamente efficace Non ci resta che piangere, i film da lui diretti sono la continua riproposizione della nullità registica di un Benigni incapace di costruire alcunché, estraneo alle più elementari regole del 'raccontare', stilisticamente inesistente e ovviamente poco abile nel dirigersi. In questo panorama desolato e desolante composto perlopiù da insulse commediole degli equivoci di indicibile sciattezza e incredibile bruttezza, La vita è bella è riuscito ad aprire spiragli, se possibile, ancora più inquietanti: il configurarsi di un imminente distacco dall'inerziale vis comica del Nostro (vis che aveva fino ad allora salvato il salvabile) per addentrarsi nei territori della Poesia condita di fellinianesimo d’accatto. Con Pinocchio possiamo davvero dire che la frittata è fatta. Già le premesse non lasciavano presagire nulla di buono: come non vedere nella scelta di un soggetto 'universale' come la favola collodiana un gesto 'codardo', una facile fuga dal difficile dilemma del cosa-faccio-dopo-il-boom-internazionale-de-lavitaèbella? Come non vederci, altresì, l'occasione per fare 'finalmente' un po' di soave, fiabesca poesia? Eccoci dunque il nostro Benigni da asporto coprodotto Miramax, il Benigni meno comico e meno toscan(acci)o di sempre, il Benigni più pretenzioso e ostinatamente 'artista', il Benigni meno 'Benigni', il Benigni più noioso e più brutto. Pallida parodia di se stesso, il Nostro 50enne in abitini ridicoli zompetta, ride, sgrana gli occhi e piagnucola con l'intento di rendersi credibile incarnazione dell'eterna fanciullezza dolorosamente non eterna... con quale risultato? Quello di rendersi solo ridicolo e di trasmettere grande imbarazzo e un profondo senso di triste disagio che permea 'tutto' il film in tutte le sue componenti: si notano gli sforzi produttivi e si pensa al povero Cecchi Gori sul lastrico, si registra la scolastica fotografia di Dante Spinotti e ci si incupisce per un bravo cinematographer finito nelle mani di chi non sa cosa vuole da lui, si pensa a un piccolo capolavoro letterario e se ne vede la (abbastanza) fedele E mortificante trasposizione, si ricorda l'anonimato recitativo di Kim Rossi Stuart e si è costretti a costatarne l'immane superiorità rispetto a qualunque altro attore abbia calcato il set di Pinocchio (tranne la sempre più imbarazzante Nicoletta Braschi, ché non è un'attrice, e i Fichi D'India, ché non sono niente...). C'è solo un aspetto di Pinocchio che lo potrebbe rendere un oggetto di un certo interesse: Pinocchio è la lapide artistica di Roberto Benigni Uomo Di Cinema E Di Spettacolo, l'epitaffio che lo ricapitola e lo consegna ai posteri. Pinocchio appena scolpito è il Benigni di inizio carriera, ruspante, istintivo, genuino, quello del Teatro Tenda, di Cioni Mario, delle bestemmie, del 'Wojtylaccio' che gli costò 'l'esilio', del 'buonasera brutte maiale' a uno spettacolo per l'8 Marzo... poi inizia a 'crescere'. Spesso punito per la troppa esuberanza, Pinocchio-Benigni segue un lento e lungo processo di formazione che ha come obiettivo il farlo diventare un 'ragazzino perbene', accettato, amato e rispettato da tutti; Pinocchio continua a promettere di cambiare (e a non mantenere le promesse, ma un pochino ci prova...), Benigni inizia lentamente a smussare gli eccessi, a edulcorare la sua comicità che continua a far affiorare il Benigni che fu ma che è sempre meno 'comica' e sempre più 'buon(ist)a'. Fino al tracollo. Pinocchio ha messo la testa a posto, lavora (letteralmente) come un ciuco per il suo povero babbino, ha dimostrato di aver capito la lezione e ottiene la sua ricompensa in/di 'carne e ossa', Benigni, non contento di aver da tempo smarrito le sue caratteristiche migliori e peculiari, diventa una macchietta: va in TV e timbra il cartellino saltellando e urlando su ordinazione, recita infiniti e tediosi inni alla Gioia e all'Amore, fa film sempre più brutti e sempre meno divertenti e, infine, cerca di reinventarsi come improbabile fusione tra Chaplin e Totò. Certo ora è davvero anche lui un 'bambino come tutti gli altri' e infatti 'tutti gli altri' (nel mondo) lo conoscono, lo apprezzano, perfino lo amano... Ma quell'ombra... Quell'ombra che lo abbandona nell'ultima sequenza di Pinocchio, il 'fanciullino' che è(ra) in lui, è fuggito per sempre e non tornerà più. Chissà come la pensa l'interessato, chissà se condivide le parole del suo alter ego letterario e se ne coglie l'infinita, disperata tristezza...  Com'ero buffo, quand'ero un burattino!... e come ora son contento di essere diventato un ragazzino perbene...

Dopo il trionfo de "La vita e' bella" Roberto Benigni e' diventato un'icona venerata in ogni parte del mondo. Davvero difficile quindi restare fedele alla propria immagine di poeta burlone riuscendo nel contempo a raccontare qualche cosa di nuovo. La scelta di adattare il testo di Collodi, perfetta sulla carta per far risaltare lo spirito istrionico di Benigni, si rivela invece fallimentare sotto molti punti di vista. Ci vuole una grande capacita' di astrazione per credere che il burattino di legno costruito da Geppetto sia un uomo, e perdipiu' il cinquantenne Roberto Benigni, ma il film da' per scontato che sia cosi' e non si pone il problema di rendere credibile questo aspetto. Tutti i personaggi lo vedono come burattino e questo basta a risolvere il problema. Ma sono tanti i passaggi che giocano sulla notorieta' del classico di Collodi e il film sembra piu' che altro un riassunto dei punti salienti del romanzo senza un collante di sentimenti e magia. Tutti i passaggi chiave, infatti, vengono piu' o meno rispettati, ma si passa da un episodio all'altro in modo meccanico e approssimativo: la fata turchina prima abita in un bosco e poi in riva al mare, il Grillo Parlante appare e scompare senza logica, Geppetto dice di avere fatto tanto per l'educazione del burattino e lo cerca disperato quando lo ha visto solo per pochi giorni. Non basta essere fedeli a un testo per trasmetterne l'essenza e al film manca una visione d'insieme in grado di animare la storia raccontata. Tutti i personaggi sono ridotti a macchiette e gli interpreti fanno quello che possono, ma non riescono nell'impossibile tentativo di dare vita a personaggi che di vita non ne hanno: Roberto Benigni, dopo lo spaesamento di ritrovarselo bambino e di (finto) legno, porta la sua maschera con credibilita', ma riduce Pinocchio a una peste urlante che combina guai a destra e a manca senza causare il minimo stupore; Nicoletta Braschi presta il suo piglio etereo (o catatonico?) alla Fata Turchina recitando in perenne stato di veglia; Carlo Giuffre' e' un Geppetto con un'unica battuta ("Pinocchio dove sei?") da annali del trash; Kim Rossi Stuart e' un volenteroso Lucignolo, forse il personaggio piu' approfondito del film; i Fichi d'India sono perfetti come Gatto e Volpe, ma i loro battibecchi non suscitano alcuna ilarita'. In generale si puo' dire che manca a tutti i personaggi e al film stesso una progressione drammatica. Qualche cosa alla fine dovrebbe essere cambiato, ci viene detto, ma non ce ne accorgiamo.
Tecnicamente invece ci troviamo davanti a un kolossal molto curato. Bellissimi e fantasiosi scenografie e costumi del compianto Danilo Donati; poetiche le musiche di Nicola Piovani, suggestiva la fotografia di Dante Spinotti e convincenti gli effetti speciali di Rob Hodgson. Peccato che nello sfarzo della confezione si senta la mancanza di un elemento determinante: l'emozione.