Drammatico, Recensione, Streaming

PIG

Titolo OriginalePig
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2021
Durata92'
Sceneggiatura
Fotografia

TRAMA

Un cacciatore di tartufi si reca a Portland dal deserto dell’Oregon per trovare la persona che ha rubato il suo amato maiale.

RECENSIONI

A un buzzurro rubano il maiale. No, non è l’inizio di una barzelletta, bensì la sinossi di Pig, thriller sui generis dove, diciamolo da subito, il buzzurro non è un semplice buzzurro, e il maiale, ça va sans dire, non è un semplice maiale. E anzi, la trama esilissima apre a una posta in gioco che ambisce a esplorare con verve intimista nientemeno che il trauma della perdita, che sia di una madre o di una compagna, in un mondo apparentemente popolato da soli e sbandati uomini ove l’universo femminile è magnificato in quanto palinsesto di ricordi dolorosi o, in un paio di momenti chiave, rifugio esistenziale (la fornaia che abbraccia Rob, la custode del cimitero che, pur senza che le fosse richiesto, fa le veci delle spoglie della sua moglie defunta).
A reggere siffatto esercizio di sottrazione bressoniana anzitutto Nicolas Cage, a cui non si può dire nulla ma davvero nulla; alla facciazza del meme (meme che infatti si basa sulla sua faccia), si carica addosso tutta la tensione emotiva del film con encomiabile signorilità, e il figlio vicario Amir, interpretato da un pur nella parte Alex Wolff, non può che stare, umilmente, nella sua ombra.
Pig dunque è perlomeno la conferma di cui non avevamo bisogno della grandezza di Cage, quando enigmatico quando empatico, il cui carisma è quel che basta per sopperire a una regia a tratti un po’ stucchevole (le carrellate dell’automobile nei boschi o in città, tanto per dirne una), e a una sceneggiatura in certi momenti da neolaureatə DAMS: a che serve in quello che è un dramma anzitutto interiore inserire una sequenza in stile Fight Club ma con tipo Cracco e Cannavacciuolo anziché Tyler Durden? perché dividere in tre capitoli – con titoli evocativi di piatti prelibati – un film che invece presenta un arco drammatico linearissimo? non si poteva fare a meno del dialogo sui kaki con il bambino che suona l’handpan (saremo mica in un testo di Battiato)? perché se da un lato lavori sull’assenza dall’altro mi stroppi il film con queste grossolanerie?

Detto ciò il risultato è alla fine godibile, anche e forse proprio per via delle sue zone un po’ ombrose, sbavature che innalzano il tenore generale senza che i succitati elementi nuocciano più di tanto. Se infatti sarebbe facile rubricare Pig a quel filon(cino, sic) tutto basato sull’archetipo dello chef tormentato (appunto Chef, Favreau 2008, ma pure Il sapore del successo, Wells 2015), nel film di Sarnoski la cucina è sullo sfondo, e anzi quando appare sembra già di troppo. Non è un film sul cibo, sebbene il cibo funga in un passaggio finale da sorta di motore mnestico che nel rievocare antiche memorie è anche capace di riscoprire traumi sepolti (una versione in negativo della odiosa retorica della “cucina di una volta”). Non è un film sulla cucina, anche se il protagonista Rob è non uno chef, bensì lo chef di Portland, rispettato da tutti e auto-esiliatosi nei boschi. Sai, no, quella cosa che se hai la passione e ci credi veramente tutto poi si risolve…ecco, fanculo: non è vero niente. Non è un film sul mangiare, anche se vi si mangiano, nei tre capitoli, rispettivamente una torta rustica di funghi, un french toast e delle capesante destrutturate, infine un piatto a base di volatili non meglio precisato. Ah, e non è nemmeno un film sul simpatico maiale che viene rapito all’inizio, e su cui si fonda tutta l’epopea oregoniana di Rob e Amir, perché, come dicevamo, il maiale non è un semplice maiale (anche se, poverino, fa una brutta fine).
Ma allora su che cos’è, questo dannato film? Forse, come già detto, è un film sul lutto; ancora è il racconto della necessità degli affetti e più in generale dell’altro: se il maiale è la compagna vicaria di Rob, quest’ultimo si fa specie di padre putativo per Amir; oppure è la messinscena di una sorta di dark side della ristorazione alta, a mo’ di evil Michelin Stars Restaurant be like; o ancora è la novella del saggio nichilista (la scena del dialogo con lo chef Derek ci dimostra la capacità di Rob di generare epifanie negli altri) che ha perso tutto e che, come vuole il folklore, dopo aver toccato il fondo non può che tornare su.
Questo è dunque Pig, un neo-noir che se non riesce a generare quella sindrome di Stendhal che prova invece Darius, padre di Amir, quando mangia il piatto preparatogli da Rob, risulta almeno discretamente palatabile. Non possiamo infatti che amarlo, Rob, antieroe per eccellenza, ex-chef ma ex per davvero, che ha il pregio di non volersi aprire né un nuovo ristorante, né altro, non cerca la x-esima stella, non sta in televisione, è un genio ma se ne frega, non ci ammorba con gare culinarie, libri di ricette, bazzecole sul sale rosa dell’Himalaya. Per adoperare una formula in uso da qualche tempo a questa parte: questo è Rob. Rob vuole semplicemente starsene nei boschi, per fatti suoi, raccogliere tartufi per vivere, e dormire con il suo maiale. Sii come Rob.