TRAMA
Nella Londra odierna le vicende di Okwe, immigrato illegale nigeriano, e di Senay, giovane ragazza turca, si intrecciano tra vari lavori occasionali, in un albergo dove si compiono espianti per il traffico d’organi.
RECENSIONI
Il dolore ed il ricordo della terra madre, l'estraneità nel mondo occidentale, lo sforzo per accettarsi e diventare invisibili ed agire nelle pieghe cui nessuno presta attenzione sono i motivi che si nascondo al di là della frenetica ed acuta superficie di Dirty Pretty Things, prima sceneggiatura di Steven Knight, uno dei creatori del format "Who wants to be a Millionaire?" ed autore di programmi della BBC.
Okwe (lo trepitoso Chiwetel Ejifor) si barcamena tra i suoi impegni come tassista illegale, di giorno, e di receptionist in un hotel, di notte, per reggere la mancanza di sonno mastica erbe medicinali. I pochi attimi di tranquillità -presto interrotta da agenti dell'immigrazione- sono quelli trascorsi sul divano dell'appartamento di Senay, ragazza turca che ha fatto richiesta per asilo politico e quindi non potrebbe in teoria lavorare per sei mesi. Un turbine di movimenti in cui ogni rapporto umano è necessariamente franto da brevi frasi, apparenze, opinioni altrui e, come s'usa, consigli di "amici". Si fa labile, in questo contesto, il confine tra la dignità e la morte, Okwe, un medico in patria fuggito per pressioni del regime, si trova invischiato, ricattato dal losco Sneaky (Sergi Lopez), in un'organizzazione che offre agli immigrati non regolarizzati, documenti in cambio d'organi.
Non è tanto lo scioglimento del problema morale ad importare - per quanto ottimamente realizzato con acume - quanto il complesso orchestrato da Frears, questioni di globalizzazione (ci tocca dirlo), di immigrazione e malavita sono trappole per mille moralismi consolatori e facilifacili, adottando il punto di vista di questi estranei radicali, dotati per certo di umorismo e carisma non comuni, sono i fatti e le azioni condizionare la visione. Nessuna questione d'assoluti. La vita d'ogni giorno di chi c'è ma non si vuole vedere, luogo comune e stantio, si esplicita con freschezza ed il breve monologo del sotto-finale di Okwe ("noi siamo quelli che vi portano in taxi, che puliscono le vostre stanze e che vi succhiano il cazzo" - gesto d'assenso della simpatica prostituta lì a fianco) parla di individui e personalità. non di problemi sociali. Frears ha un tocco leggero ma pungente, scavando nei dettagli porta alla luce speranze, sottintesi ed emozioni pronti ad essere acuminati ed umani più di qualunque lacrima.
Girato splendidamente, Dirty Pretty Things annichilisce per la sua semplice maestria. Unica pecca: Audrey Tatou, nella parte di Senay, sfigura malamente
Come definire questo DIRTY PRETTY THINGS? E' un po' l'interrogativo che ci si pone su Stephen Frears, autore di film diversissimi tra loro la cui cifra stilistica, a volerla cercare con il lanternino, sarebbe la solidità narrativa, la perfetta capacità del regista di mettersi al servizio del copione, narrare una storia, nel senso più classico dell'espressione. Da regista arrabbiato (i film scritti da Kureishi nell'Inghilterra thatcheriana degli anni 80) a perfetto cerimoniere del bell'adattamento hollywoodiano de LE RELAZIONI PERICOLOSE, continuando a rimbalzare da un capo all'altro dell'Oceano con esiti alterni ma mai disprezzabili e, a volte, molto lusinghieri. DIRTY PRETTY THINGS mescola love story a thrilling a impegno sociale: si parla di immigrazione e di traffico di organi, ma ci sono anche suspense, sentimenti e, soprattutto, un ritratto a tutto tondo di personaggi in lotta per affermare la propria esistenza in un (sotto)mondo corrotto che li costringe a nascondersi, a ingoiare bocconi amari, a umiliarsi. Lo script non ha un intoppo, il film scorre, avvince, commuove e diverte; Frears ha momenti di bella ispirazione e non fa mai il passo più lungo della gamba, non sbaglia un tono, non ha alcuna esitazione. Un lavoro impeccabile che avrebbe meritato un premio, per la sua professionale onestà, in un festival con tante opere velleitarie come quello di quest'anno.
Si può parlare del disagio degli immigrati e del cupo sottobosco di una metropoli, non per forza torturando lo spettatore con gratuite grevità e insostenibili lentezze, ma semplicemente raccontando una bella storia. Ed è proprio quello che fa Stephen Frears, regista discontinuo (qui prodotto dalla potente Miramax), che adotta un bellissimo script di Steven Knight ammantandolo di cinema. Niente vezzi autoriali, di quelli che fanno impazzire la critica e sonnecchiare il pubblico, ma una regia funzionale al racconto, priva di virtuosismi ma perfetta nel trasportare lo spettatore dentro i personaggi, facendolo soffrire, indignare e palpitare, come se ciò che avviene sullo schermo accadesse qui ed ora e necessitasse di risoluzione immediata. Il protagonista è un bravissimo Chjwetel Ejiofor (già visto in GMT-Giovani Musicisti di Talento) che attraverso un lavoro di sottrazione comunica costantemente la sofferenza contratta del suo personaggio. Audrey Tautou evita di adagiarsi nella carineria di Amelie Poulan, che l'ha resa più che popolare, e sceglie un personaggio dalla dolcezza violata, smarrito in un mondo più grande di lei che della francesina spontaneista conserva solo gli occhioni neri. Sempre più bravo anche Sergi Lopez, qui cattivissimo senza cadere nella trappola della caricatura. Ma è proprio il copione che dissemina i dettagli del racconto con grande equilibrio, consentendo una progressione drammatica sempre più coinvolgente. E l'indignazione e la commozione che il film riescono a suscitare, sono molto più efficaci di tanti pistolotti edificanti, raccontati con autorialità ma incapaci di accorciare la distanza tra schermo e spettatore.