TRAMA
Le quattro sorelle March – la giudiziosa Meg, la ribelle Jo, la dolce Beth, la vanitosa Amy – si preparano a diventare grandi, inseguendo speranze e ambizioni sullo sfondo di un’America scossa dalla guerra di Secessione.
(dal catalogo Einaudi)
RECENSIONI
Ripresa di spalle davanti a una porta a vetri chiusa e inondata dalla luce, la testa china in raccoglimento su se stessa, i pugni delle mani che si aprono a liberare la tensione, la Jo March (Saoirse Ronan) di Greta Gerwig, come altre protagoniste del suo cinema, da Mistress America (Noah Baumbach, 2015) a Lady Bird (Gerwig, 2017), si presenta subito come una performer in attesa di entrare in scena, dietro al sipario che sta per aprirsi sul proprio destino, mentre sta forse ripassando un'ultima volta quella versione di sé con la quale vuole farsi strada nel mondo.
Sono molte le finestre, i riquadri che incorniciano le protagoniste della regista originaria di Sacramento, perché «l'idea che tutti recitiamo un ruolo» [1], che ogni luogo si dia come proscenio sul quale esibirsi e osservarsi attraverso lo sguardo dell’altro, è centrale nel suo cinema, che rappresenta spesso il passaggio all'età adulta raccontando l'evoluzione di un nome. Se Frances Ha, Mistress America, Lady Bird, che danno il titolo ai suoi racconti filmici, sono nomi inventati, trascritti, riadattati, segno grafico dello spaesamento identitario delle protagoniste, non essendo possibile per loro ancorare la (le) proprie identità a nient'altro che immagini, in Piccole donne la storia delle sorelle March è inscritta in quella del nome che, dall’anonimato, si imprime sulla copertina dell’opera di finzione con la quale la protagonista si presenta al mondo. L’ombra che, alla fine del film, attraversa il volto di Jo, sembra rivelare la consapevolezza che quello che la ragazza sta stringendo tra le mani, e che osserva riporsi sugli scaffali del pubblico, è solo una versione della storia: quella «romantica» che il pubblico vuole leggere/vedere, contrattata con l’editore e ri-scritta su quella “reale” (come dimostrano i due montaggi dell’epilogo “sotto la pioggia”); quella tutta compresa nello sguardo ri-legato tra la prima e l’ultima inquadratura del film, tra due quadri di Saoirse Ronan incorniciata da una finestra, l’uno di spalle e l’altro frontale, complementari come in un campo-controcampo.
Al di là delle tirate apertamente femministe che Greta Gerwig dissemina nel film, estranee al romanzo della Alcott, è forse questa consapevolezza a rendere moderna la sua trasposizione, e a declinare il racconto di formazione in una visione personale, in un gesto creativo spesso narcisistico e maldestro nel suo cinema, che “maneggia” l’altro per dire se stesso. Se in Frances Ha (Baumbach 2012) le azioni sconclusionate di Frances (come quella di ri-creare con un’estranea la lotta giocosa che faceva con l’amica del cuore Sophie) erano tentativi di salvaguardare la sua immagine di coppia («Noi siamo come una coppia di lesbiche che non fa più sesso»), che Sophie, fidanzandosi, aveva tradito, in Piccole donne il racconto di formazione si innesta sulla messa in scena dell’elaborazione di un lutto, la morte di Beth (Eliza Scanlen), l'angelo del focolare, la «migliore» delle sorelle che non ha mai lasciato la casa. Diversamente da quanto avviene nel romanzo [2], nel racconto filmico è Beth a chiedere alla sorella di tornare scrivere («scrivi qualcosa per me»). È per lei, figura di eterna piccola donna, che la scrittura di Jo/Louisa/Greta (tutte sovrimpresse sul corpo attoriale di Saoirse Ronan, piccola donna gerwighiana per eccellenza) sublima la giovinezza in quell’immagine che è in Gerwig il campo ideale contro ogni deriva identitaria: la sorellanza prima di qualsiasi altra unione e solitudine.
Così nel film, ai drammi quotidiani delle donne ormai cresciute e divise tra New York, Parigi e Concord, la narrazione alterna i flashback dedicati ai momenti della loro infanzia, episodi che Gerwig seleziona e talvolta rielabora (come nel caso della lettera che Jo scrive a Laurie, assente nel libro) dai romanzi della Alcott per metterne in luce, con raccordi trasparenti e puntuali, la corrispondenza tematica o narrativa. L’intento è chiaro, la coerenza delle scelte cristallina: accordare tra di loro immagini distanti come se fossero versioni contrapposte di un medesimo episodio; come se fossero, in un certo senso, ipotesi dimostrative e non visioni in divenire. Perché sebbene l’ultimo sguardo dell’eroina provi a ridimensionare nel turbamento l’intera prospettiva, a prevalere è la sensazione che una scrittura, una disciplina impropria, abbia condotto il racconto del “caos in formazione” con una mera, schematica enunciazione di cause ed effetti. Un po’ come la fisicità di Laura Dern, troppo “spigolosa” per incarnare la dedizione materna della signora March.
[1] Dichiara Gerwig commentando Lady Bird: «Anche la chiesa ha un proprio proscenio. E poi c'è quello all'interno delle aule, un tipo di proscenio che serve in parte a riflettere l'idea che tutti recitiamo un ruolo, che fingiamo di essere qualcun altro. La sua scelta di usare un altro nome va vista in quest'ottica. Di pari passo con l'idea del proscenio e del teatro c’è in che modo i luoghi di culto o quelli dove si interpreta un ruolo possono interagire nello sviluppo di una persona».
[2] In Piccole donne crescono, è la madre a suggerire a Jo di tornare a scrivere: «Scrivi qualcosa per la tua famiglia, senza curarti del resto del mondo. Tenta, mia cara, e sono sicura che darà soddisfazione a te e gioia a quelli che ami».