Drammatico, Fantastico, Sala

PETITE MAMAN

Titolo OriginalePetite maman
NazioneFrancia
Anno Produzione2021
Durata72'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

La nonna di Nelly, che ha otto anni, muore in una casa di riposo. Lei e i genitori raggiungono quella che era la sua abitazione per sistemarla per una probabile vendita. La mamma, Marion, ritrova ciò che possedeva quando era bambina e racconta di una capanna costruita nel bosco che si trova nei pressi dell’abitazione. D’improvviso poi parte lasciandola sola con il padre. Girovagando nel bosco Nelly trova una bambina che sta costruendo una capanna. Quella bambina si chiama Marion.

RECENSIONI

Una bambina aiuta una donna anziana a completare un cruciverba: sarà la sua nonna. Nel giro di qualche fotogramma sappiamo che la realtà non corrisponde a ciò che abbiamo presunto perché la nonna non c’è più. Gli “arrivederci” ripetuti, che accompagnano la prima scena del bel lavoro di Céline Sciamma, suonano come l’au revoir nel finale del film di Louis Malle. Un commiato definitivo, gli addii, nella necessità, da una parte di tenere lontani, per quanto possibile, gli enfants dalla consapevolezza più tragica, dall’altra di rendere chiara la parziale cognizione dei fatti da parte dei ragazzi, schierati come un plotone, sopravvissuti senza merito (perché non vi era colpa).
Nelly, la piccola protagonista di Petite Maman, assume invece su di sé l’onere della perdita, fin da quando dichiara di non aver salutato come avrebbe voluto la congiunta dipartita. Per la nonna, quella vera, non c’è potuto essere nessun arrivederci, non ce n’è stato il tempo. Ma il tempo, al cinema, è in fondo una questione di montaggio, di magia, di immaginazione, la stessa che ci aveva illuso nell’incipit, permettendoci di figurare in essere un rapporto purtroppo già interrotto.
Da questo momento, con uno stratagemma, anche narrativo, che tuttavia resta vago nelle motivazioni concrete, Marion, la madre adulta di Nelly, sparisce, si allontana dalla casa natale, lascia al compagno il compito di svuotarla degli oggetti rimasti, per poi chiuderla per sempre. Viene sostituita da un doppio speculare di Nelly, interpretato infatti dalla gemella della giovanissima e intensa Joséphine Sanz. Marion, il suo nome, ça va sans dire.
Quasi guidata dalla mano poetica di Tim Burton, col suo Big Fish, o da quella di Emir Kusturica (Arizona Dream: la fatuità dell’esistenza, la leggerezza comme l'oiseau del sogno), Céline Sciamma, pur in un presenza di un’asciuttezza formale che la differenzia dai colleghi, imbastisce una storia ectoplasmatica, che assume via via la forma della più viva materia. Col fulcro naturale – e immerso nella natura, identica e in continua mutazione – collocato in una vecchia capanna-utero di arbusti da abbellire, filum affettivo ed emozionale fra la vecchia Marion e la nuova Marion, e fra entrambe e Nelly, ogni immagine pare sovrintendere a ogni altra, in una costruzione che si sbroglia sotto i nostri occhi, testimoni di un vero e proprio viaggio nel tempo e negli spazi (domestici). Se si desidera parlare di una proto-elaborazione del lutto, non si può farlo secondo dettami troppo codificati – per esempio, seguendo alla lettera le teorizzazioni a vari stadi di Lindermann o Bowlby, tra gli altri –, piuttosto ragionando sul concetto di morte come ri-nascita. Ci si riferisca magari a Edgar Morin, laddove amplia i postulati sul totemismo (L’uomo e la morte, disponibile in una recente edizione Il Margine, Trento), trattando di quelle che potremmo definire le metamorfosi statiche, secondo le quali si rinasce come se stessi – magari, in relazione a questa storia, dei se stessi ri-pensati/plasmati – e come i propri antenati. L’ontogenesi della madre-gemella ha dunque intento di accrescimento gnoseologico e di rafforzamento dell’Io, in opposizione a ciò che avveniva in Dead Ringers (Inseparabili), ove predominava, in una vera e propria patogenesi, l’istanza pulsionale auto-distruttiva dell’Es.

Sciamma rifugge poi qualunque tentazione di insistenza melodrammatica sul dolore o sull’infanzia angelica. Geometrizza anzi – in questo senso, si pensi all’eucrasia anti-retorica tra significante e significato di un lavoro come Amour, di Haneke – un’avventura di consapevolezza ludica: Nelly, attraverso l’immaginazione e il gioco, fanciulleschi, sì, ma non bamboleggianti, non perde di vista il proprio compito di demiurgo. Non lo fa neppure quando recita, in una sorta di mise en abyme drammaturgica, dividendosi tra più ruoli e lasciando alla madre-bambina quello da protagonista assoluta. Non lo fa quando guida la direzione del canotto verso un amnios che fonde il presente e il futuro con un passato quasi arcaico, senza tempo, attraverso una connessione musicale con funzione di trait d’union anche fra l’intra e l’extradiegetico. La forma della caverna transizionale – forzo un concetto di Winnicott – è ancora quella della piramide, simile cioè alla capanna di legna, a rafforzare il simbolismo del risveglio della coscienza (come pure di una nuova nascita, di assenza di fusione), sia per i personaggi che per gli spettatori. Il nicchio della fantasia si schiude sul disvelamento della paura – il disvelamento del volto paterno, dopo la rasatura, lo faceva più bello –  e riesce a renderla un poco più accettabile, comprensibile.
Un’ultima notazione, magari non necessaria, ma a mio avviso comunque significativa, riguarda la durata di Petite Maman, circa settanta minuti. Ben prima del celebre avviso di Blaise Pascal, già Orazio rilevava, nell’Ars poetica, la complessità intrinseca dell’essere concisi: «brevis esse laboro, obscurus fio», appuntava, e cioè «cerco di essere breve, ma divento oscuro».
La brevità, lungi dall’essere un limite espressivo o la denuncia di mancata incisività, è spesso una dichiarazione esplicita di intenti. La regista, con questa storia intima, povera, nel senso di girata con pochi e non sfarzosi mezzi, a la Dardenne, mi verrebbe da dire, chiarisce la propria urgenza artistica, un’urgenza così ben delineata da non aver bisogno di una narrazione fiume per trovare la compiutezza del racconto. In definitiva, come scriveva Theodore Geisel (Dr. Seuss): «[…] So the writer who breeds/more words than he needs/is making a chore/for the reader who reads./That's why my belief is/the briefer the brief is,/the greater the sigh/of the reader's relief is./And that's why your books/have such power and strength./You publish with shorth! (Shorth is better than length)». Soprattutto quando si racconta perché si ha – autenticamente – qualcosa da raccontare, in questo caso, forse, la necessità affettiva di pronunciare quell’arrivederci mancato, prima di poter chiudere davvero la casa della nonna e il cerchio del lutto, prima di ricollocare al suo posto – quello del ricordo pieno d’amore, non per niente multisensoriale – il bastone-feticcio. L’abitazione sul finale ci appare spoglia, eppure satura delle presenze che l’inventiva della piccola Nelly ha creato per se stessa, per sua madre e infine per noi. Ci sembra persino di percepire ancora l’odore delle frittelle… Adesso è possibile aprirsi a un legame materno rinnovato (una mamma che è triste, ma non a causa della figlia, una mamma che l’ha sempre voluta, anche prima di volerla davvero), senza più ombre spaventose ai piedi del letto: nessuno spettro, solo presenza, nessun altro, solo Marion e Nelly.