TRAMA
Colonia, anni ’70. Dopo esser stato lasciato dalla moglie, l’affermato regista cinematografico Peter von Kant vive in compagnia del suo assistente Karl. Quando incontra il giovane aspirante attore Amir, l’uomo si innamora di lui e decide di fare di lui un grande attore.
RECENSIONI
LE COSE SONO DUE
Basta l’affiche a spiegare Peter von Kant di François Ozon, il senso dell’operazione, lo spirito che la anima. Perché il film affronta Fassbinder nello stesso modo in cui quel poster rivisita la famosa locandina di Querelle firmata da Andy Warhol: sapendo di profanare una sacra immagine e contando sulla spudoratezza di quel gesto per rivendicarne il carattere ludico. C'è, insomma, un intento coscientemente parodico, un’ironia tanto ardita (si tocca un mostro sacro) quanto disincantata (sì, lo tocco, e allora?). Quindi, certo, si può gridare al sacrilegio, ma si rischia di essere più realisti del re: di fronte alla mutazione della protagonista originale in un uomo, Ozon ci sta suggerendo di non cercare Petra. Petra non c’è, inutile piangere lacrime amare (che infatti scompaiono con lei). Dopo Gocce d’acqua su pietre roventi (film tratto da una pièce teatrale del regista tedesco) e Quand la peur dévore l’âme (cortometraggio in cui, confrontando Secondo amore di Douglas Sirk e la rilettura che ne aveva dato Fassbinder, il francese creava una terza opera ibrida), Ozon si butta in una nuova contaminazione teorica, rivisitando, Le lacrime amare di Petra von Kant come ennesimo esercizio di scherzosa cineteatralità (kammerspiel di necessità, è un film figlio del Covid), pastiche cucinato a suon di gender swap, disperazione virata in commedia e altri strategici ribaltamenti. Ozon, appropriandosene, non vuole mettere in scena il testo-film di Fassbinder, ma usarlo per adattarlo a sé, ridurre un immaginario cinematografico a manifesta maniera (la leggerezza dell’occhio del francese sulla pesantezza del mondo del tedesco) e, alterandone il tono, usarlo per tracciare un ritratto ironico e affettuoso dell’autore (Peter, il protagonista, non è altri che Rainer Werner). Di più: fa di questa impertinenza un omaggio che racconta di riflesso del suo lavoro, delle sue ossessioni di autore (a ben pensarci è curioso che un regista cinefilo e teorico come Ozon giunga solo adesso a un film che entra esplicitamente nel mondo del cinema).
LACRIME MIE
In Otto donne e ½ di Peter Greenaway Philip, guardando il capolavoro di Fellini, chiede al figlio: «Quanti registi fanno film per soddisfare le proprie fantasie sessuali?» e Storey: «La maggior parte, immagino». Come Greenaway usa Fellini per dire di sé, delle sue ossessioni messe in scena (e lo fa in un film che lugubremente cataloga fantasmi sessuali), allo stesso modo dicendo di Fassbinder - di un regista, il Peter del titolo, che costruisce un film attorno alla sua incontenibile attrazione per Amir, di un artista che usa il cinema (diciamolo) per poter avere presso di sé quel corpo che ammira - Ozon probabilmente parla anche delle proprie fantasie, del modo in cui il cinema serva a dare a esse voce. Peter von Kant è insomma, da un certo punto di vista, un dietro le quinte psicanalitico, un cantiere dell’anima (registica) a nudo, laddove, dietro quel desiderare, penare, godere, patire, c’è poi l’immagine sullo schermo, che tutto quel lavorio interiore lo implica senza rivelarlo necessariamente.
Un nuovo saggio critico in cui si entra dentro un mondo autoriale e lo si guarda con l’occhio del senno di poi (Lontano dal paradiso, Todd Haynes, ancora Sirk) e dove, appunto, l’ironia è sovrana, basti guardare al modo lievemente autoparodico ed eminentemente cinefilo con cui il regista usa Isabelle Adjani (la diva Sidonie) che porta dentro al film tutto il peso storico che ha il suo volto e la carriera che evoca. Nessun sacrilegio insomma, solo sanissimo feticismo che ha nella presenza di Hanna Schygulla, musa fassbinderiana, una sorta di legittimazione interna (la madre, mica a caso).
O LACRIME TUE
Ma detto in teoria, all’atto pratico cos’è questo Peter von Kant? Dramma sul sadomasochismo a catena: Karl, ammiratore-geisha, è slave muto del suo master, il regista Peter, mentre quest’ultimo è a sua volta sottomesso dalla sua passione per Amir, un rapporto che vuole anticonvenzionale, pur non reggendo a una libertà che predica solo per tenere quel legame in piedi. Di riflesso - lo vediamo alla fine, nella scena in auto - la stessa Sidonie è una mistress che ha schiavizzato il suo compagno Lester. Amir, fondamentalmente etero (?), da parte sua accetta il ménage con Peter per convenienza e lo porta avanti fin quando gli conviene. Se tutte (tutte) le relazioni amorose ed erotiche hanno sempre (sempre) un carattere di reciprocità sadomaso - umiliazione, disprezzo, sofferenza, sottomissione, compiacenza le attraversano in modo più o meno evidente - perché «l’essere umano ha bisogno dell’altro, ma non ha mai imparato come stare in due», Peter, l’anima del melodramma (Ménochet giganteggia in ogni senso), non può che struggersi. Fino a quando, mollato da quel corpo che racchiude un’anima capricciosa e opportunista, non gli restano che lacrime (amare, lo dico sottovoce) da piangere sull’immagine adorata, icona da venerare col culto del ricordo. Chi ignora che nell'amore prevale la legge del più forte è condannato alla sofferenza e alla solitudine.
Un breve apologo (85 minuti) su come il burattinaio PVK si riduce a burattino, vittima di un rapporto di necessità asimmetrico, come dimostra il finale: come accadeva nell’originale, non appena Peter vuole spezzare la sottomissione di Karl e rimettere le cose in pari, ecco che l’uomo gli sputa in faccia e lo molla. Quando uno dei giocatori rinuncia a giocare, all’altro non resta che lasciare il tavolo.