Drammatico, Raiplay, Recensione

PERSONAL SHOPPER

Titolo OriginalePersonal Shopper
NazioneFrancia, Germania
Anno Produzione2016
Durata105'
Sceneggiatura
Fotografia

TRAMA

Maureen è una giovane donna americana che vive a Parigi e lavora come personal shopper. Ha l’incarico di scegliere i vestiti ideali, con un budget stratosferico a disposizione, per una star esigente di nome Kyra. Maureen ha anche il dono di comunicare con gli spiriti. Cerca un contatto con l’aldilà per poter salutare definitivamente il fratello gemello Lewis, recentemente scomparso e per riappacificarsi con la sua perdita. Inizierà a ricevere ambigui messaggi inviati da un mittente sconosciuto. Entrerà in contatto con una presenza spettrale ma non è sicura che si tratti di Lewis.

RECENSIONI

Maureen, col fratello, ha perso metà di se stessa: in una terra straniera in cui ha un lavoro che la umilia e che non la rappresenta, che la distrae da quello che le appartiene più profondamente, cerca di capire chi sia, tenta di ricomporsi. Come in Sils Maria, Kristen Stewart interpreta una persona subalterna a quella che lei incarna nella realtà, lo specchio rovesciato della sua situazione, l'ombra, invisibile al mondo, di un personaggio pubblico (pensiamo al gossip sulla star del film precedente, interpretata da Chloë Grace Moretz, che era l'esatta riproduzione di quello al centro del quale è stata la Stewart in questi anni).
Maureen, affascinata da un'immagine di femminilità sofisticata, lei che la sua la reprime con mise mascoline, è un manichino che indossa panni altrui («Vuoi essere qualcun altro?» le domanda l'interlocutore misterioso), quelli di Kyra (una star cinematografica, una modella, una socialite: non lo si dice). È la personal shopper di una celebrità ed è disgustata e attratta da un mondo che non le appartiene: e infatti lo spia da internet. Il lusso, le creazioni della moda sono cose che può vedere, ma non può possedere e nemmeno provare, al massimo sfiorare, scorrendone con un dito le immagini sullo schermo (pratica che si rispecchia in quel passare in rassegna gli abiti nel negozio). Il jet-set - un mondo evanescente, e lo è anche Kyra - è, per lei, come quello virtuale della rete: consultabile, sognabile, visitabile eppure irraggiungibile. In cerca disperata di sé, la ragazza si annulla in Kyra, ne diventa, a insaputa della celebrità, il body double e fa prove di costruzione identitaria. Fuori dalla sua sfera lavorativa, è impegnata, però, a cercare qualcosa che sia autenticamente personal. L'attesa fiduciosa di un segno dal fratello riflette, più che la possibilità effettiva di comunicare col gemello morto, l'agitarsi di un demone interiore: è il suo inconscio a cercare di emergere e di affermarsi, come testimoniato da quell'interrogativo finale.

Assayas continua a sperimentare col cinema, a intenderlo come un mezzo che da un lato esplora l’inconscio e dall’altro rappresenta l’evoluzione della nostra percezione del mondo. I suoi film oscillano, dunque, tra questi due poli, si muovono tra intimismo e modernità: da una parte si scandaglia la sfera personale, l’interiore, si dà testimonianza di un cammino introspettivo. Dall’altra ci si interessa al progresso degli strumenti di comunicazione, essendo questi che modificano le modalità di interrogare la realtà. Personal Shopper, come sempre, si impegna a integrare nel discorso filmico le nuove possibilità offerte dalla tecnologia, a farle proprie. Il genere (l’horror e il thriller in questo caso) serve entrambe queste esigenze: l’invisibile col quale ha a che fare Maureen (gli spiriti) consente al regista, da un lato di rappresentare un percorso personale che investa la fede, l’inconscio, l’immaginazione (la casa piena di rumori, di presenze altre/ proiezioni di sé). Ma quello stesso invisibile apre anche a una riflessione sulla comunicazione del nostro tempo in cui web e nuovi device ci mettono in contatto con interlocutori lontani, sconosciuti, non visibili, appunto, di sostanza ipotetica (un altro tipo di spettri/ specchi). E il finale (quella domanda: «Sono solo io?») racchiude, ancora, entrambe le dimensioni: quella personale del percorso di costruzione dell’io, da una parte (rendersi conto che cercare Lewis significava cercare se stessi), e quella della modernità, attraverso il riferimento all’onanistico comunicare dei nostri giorni, dall’altra. L’horror, facendoci immaginare che i messaggi che Maureen scambia con un interlocutore misterioso, potrebbero essere inviati da (e indirizzati a) un fantasma, un’entità non umana, è quindi un genere-tramite che permette al film di intraprendere un discorso sottile sulla virtualità (mi vengono in mente i CAPTCHA - I’m not a robot). Nelle opere del francese, lo ribadisco, questo avviene da sempre, si pensi, per tutti, a Demonlover: al centro del discorso c’è il modo in cui le nuove tecnologie vengono impiegate, utilizzate, manovrate o manipolate e la riflessione viene resa attraverso una narrazione di genere (in quel caso la spy story e il mystery).
Olivier Assayas fa, dunque, cinema contemporaneo e quello che porta sullo schermo è lo spirito del tempo: quindi il personal shopper, un lavoro dell’oggi; quindi Kristen Stewart, che è una star eminentemente moderna. La scelta di un attore straniero è quella consueta e cosciente di un corpo allogeno in un cinema meticcio per scelta: lo era quello di Maggie Cheung in Irma Vep, quello di Nick Nolte in Clean, lo sarà quello di Stallone nel prossimo film del regista. Ad Assayas non interessa la mimesi di questi interpreti, far incarnare loro dei francesi, alterarne la connotazione culturale; li sceglie per il motivo opposto, perché portino il loro essere, il loro vissuto (anche attoriale) all’interno del suo cinema. Maureen, allora, è una straniera a Parigi come Kristen Stewart è una star hollywoodiana che recita in un film francese. E come in Personal shopper, quello paranormale (Twilight) è il genere ospitato in un film intimista (riguardarsi il dialogo Stewart/ Binoche sul cinema di genere in Sils Maria).

L’autore fa sempre, sottilmente, un discorso autoreferenziale: è la finzione cinematografica il medium che evoca presenze, perché quando si scrive una storia si anima la memoria, si sollecita l’immaginazione, si convocano fantasmi, si ridà vita ai (propri) morti. Personal shopper è un film che parla del cinema, insomma, e segnatamente, della sua dimensione magica. Come fa, anche se in modo del tutto diverso e più esplicito, Planetarium di Rebecca Zlotowski. O, ancora, Le Secret de la chambre noire di Kurosawa Kiyoshi.
Per questo motivo l’opera si relaziona così tanto con l’immaterialità: Maureen cerca in ogni modo di avere un segno dal fratello gemello, di comunicare con lui, di sapere se è in pace; intanto intrattiene con il suo ragazzo una relazione a distanza: il corpo del fidanzato è parimenti immateriale, pura immagine su schermo, un ectoplasma, un’entità virtuale (Skype, come la messaggistica, è un altro mezzo di comunicazione dei nostri tempi). È attraverso lo smartphone che Maureen apprende e approfondisce le influenze che lo spiritismo ha esercitato nelle opere di Hilma af Klint e di Victor Hugo: scorre su Google le immagini delle opere della pittrice, guarda su YouTube un documentario dedicato a questa misconosciuta pionera del’astrattismo e l’intervista a un esperto di spiritismo. È attraverso lo smartphone che la ragazza trova il telefilm sulle esperienze esoteriche di Hugo: la percezione è mutata, sono cambiati i mezzi attraverso i quali apprendiamo le cose. E guardiamo la fiction da uno smartphone: la sala cinematografica stessa (ricordate The Canyons?) è diventata un’alternativa desueta, diverrà la prossima casa degli spiriti.
Nell’intervista che ha rilasciato al sottoscritto (Film TV, n.14/2017) il regista afferma: «Esiste il mondo dell’immagine ed esiste il cinema: il cinema ha la capacità di guardare le altre immagini e ha il dovere di testimoniare l’evoluzione di quel mondo».
Questo discorso, lungi dal pesare sul racconto, ne costituisce semplicemente una faccia, mentre quella evidentemente leggibile, che in sé scorre autonoma, lo lascia sì intuire, ma non vi soggiace. Assayas fa teoria da sempre, ma stavolta, a differenza di Sils Maria, film che il suo apparato concettuale lo mostrava tantissimo, lo integra perfettamente nel costrutto del racconto: è un film più libero e aereo, in cui la riflessione svapora nella narrazione, in cui i due piani si sovrappongono perfettamente.

Quando nel precedente Sils Maria (2014) Kirsten Stewart scompariva di punto in bianco e definitivamente, era chiaro come il sole che Olivier Assayas non aveva ancora finito con lei. Nel resto del film, infatti, non era affatto difficile avvertire la fascinazione che il regista nutriva per quell'attrice; non sorprende, dunque, che questo nuovo suo Personal Shopper sia costruito interamente intorno alla sua giovane (e senz'altro provvisoria) Musa.
Nel bene e nel male, si sa, l'ex critico Olivier Assayas non è un regista viscerale: è un regista analitico. Man mano che le sequenze si inanellano, appare molto chiaramente, in filigrana, quella che fase per fase deve essere stata la genesi del film: all'origine ci sarà stato il colpo di fulmine, la sensazione che l'apparenza della Stewart già da sola, con quella sua aria tra l'inquieto, l'abissale e l'ottuso, può contenere da sola un intero film; poi ci sarà stata, di conseguenza, l'idea di quale film perseguire (un horror, per quanto atipico); poi ci sarà stata di conseguenza l'articolazione dei topoi (una casa “stregata”, qualche fantasma; poi ci sarà stata di conseguenza l'invenzione del personaggio (una personal shopper, cioè una giovane “precaria” parigina che compra cose e vive cose per conto di una star ultraaffermata e confortevolmente reclusa); poi di conseguenza qualche scena-chiave (quelle in cui la protagonista si trova assediata dagli spiriti); poi di conseguenza la storia (la protagonista aspetta “un segno” dal fratello morto, un medium, ma si ritrova preda di misteri e forze sovrannaturali sempre meno addomesticabili...), poi di conseguenza i personaggi di contorno e le scene di raccordo, di rinforzo e di approfondimento... In una parola, lo sviluppo. Assayas è uno che tendenzialmente si fida poco delle sue intuizioni e dele sue fascinazioni, e cerca sempre di elaborarle, di farle sorreggere da un robusto sviluppo, fino talvolta a consumarle: è il suo pregio e il suo limite.

È anzi, in Personal Shopper, l'unico vero limite: per il resto si tratta di un'opera assai affascinante, che fa tesoro della libertà consentita dal genere in un modo molto simile a cui di recente c'è riuscito, per esempio, un Kurosawa Kiyoshi. La presenza invisibile dei fantasmi non è altro che il frutto del mancato autocomprendersi della tangibile assenza che qualifica la protagonista. Essa vive per interposta persona: non ha una vita sua, ma se la guadagna vivendo per conto della star di cui è alle dipendenze, sostituendosi a lei nelle piccole magagne quotidiane. Ma proprio per questo, la protagonista è come che non ci fosse, che non vivesse: i fantasmi, quel “qualcosa” che invece vive e che non dovrebbe, è nulla più che il riverbero di questa mancanza.
Assayas, regista fin troppo consapevole nel bene (molto) e nel male (poco), sa benissimo che sta maneggiando una materia dalle grosse potenzialità sociologiche, e ci marcia parecchio, facendo della sua eroina una sorta di epitome dell'oceano di persone che vivacchiano senza molta convinzione ai margini del terziario avanzato. E infatti i suoi fantasmi non sono personali, ma intransitivi: non hanno a che fare esclusivamente con la protagonista, ma circolano tra i soggetti. Ciò che differenzia la prima dai secondi, è che questi ultimi (il nuovo fidanzato della ragazza del marito, il fidanzato della star etc.) trovano tutti un modo più o meno giusto o più o meno sbagliato per tallonare e affrontare questa mancanza; la protagonista, invece, materializza quel puro punto di angoscia che il soggetto abita una volta messo davanti al vuoto che esso fondamentalmente è.
La parola chiave qui è “materializza”. Di nuovo: l'intera operazione consiste nel rinvenire nelle apparenze di Kirsten Stewart questo spaesamento. Come i registi davvero grandi, da von Sternberg a Godard a numerosi altri, Assayas lavora magistralmente con la propria attrice in modo da contemplarla e crearla con lo stesso gesto registico (come già aveva fatto, tra le altre, con Maggie Cheung); in modo, cioè, da dare rilievo esplicito alle potenzialità espressive che la sua immagine solo implicitamente suggerisce. Il punto però non si limita alla singolarissima inquietudine che va formandosi sul volto della Stewart, ma della robusta abilità, di nuovo, materiale che Assayas dimostra in un gran numero di scene: valga per tutto l'uso di luci, ritmi e spazi nelle scene nella casa “stregata”. Solo gli ingenui possono obiettare che queste scene “non fanno paura”: non la devono fare; il proposito è metterci davanti a un'angoscia che (si perdonino i toni stucchevolmente sociologici, ma essi sono tutt'altro che estranei all'approccio assayasiano) “caratterizza la nostra epoca”.