TRAMA
Hirayama conduce una vita semplice scandita da una routine perfetta. Si dedica con cura e passione a tutte le attività della sua giornata, dal lavoro come addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Shibuya all’amore per i libri, le piante, la fotografia analogica e la musica rock anni 1970, che ascolta con le sue audiocassette nell’autoradio guidando verso il lavoro. Una serie di piccole avventure, rivelazioni e incontri inaspettati riveleranno qualcosa di più sul suo passato.
RECENSIONI
L’uomo ha paura di non sentirsi altro
che semplicemente Essere.
Henri Le Saux
È un controcampo sospeso, ostinatamente mancato fino al termine, e trasformato poi in qualcosa d’altro, quando ormai il film si è concluso, a costituire e animare la tensione interna che muove Perfect Days.
Wim Wenders struttura l’essenza del suo ultimo lavoro per mezzo di un doppio movimento: da un lato, il cineasta tedesco si diverte a celare e ritardare l’oggetto dello sguardo del protagonista Hirayama, sguardo proiettato verso una dimensione celeste della quale non si dà corpo; dall’altro, Wenders fa scorrere il Cinema con i suoi giochi di segni, traiettorie, rimandi… il Cinema che va poi, appunto, a dissolversi in coda, sublimato proprio attraverso quell’immagine così sottile e impalpabile.
È sorprendente, in questo senso, notare come il regista tedesco abbia costruito molti dei suoi film di finzione recenti (in particolare, ci riferiamo a Every Thing Will Be Fine del 2015 e Les Beaux Jours d’Aranjuez del 2016) come fossero installazioni o, meglio, come se i canoni tradizionali della narrazione servissero a condurre lo spettatore in una dimensione che non appartenesse più all’arte cinematografica; uno spazio, appunto, in grado di cristallizzare lo spirito dell’opera in una singola idea-immagine fuori dal tempo e dallo spazio. In Perfect Days questo procedimento si manifesta con un incedere ancora più deciso rispetto ai lavori succitati: infatti, qui appare evidente come Wenders utilizzi il linguaggio narrativo in quanto puro, e anti-significativo, veicolo in movimento verso un oggetto della rappresentazione intangibile, distante, rendendo in questo modo visibile come il Cinema sia al contempo necessario e non sufficiente a restituire quel determinato oggetto.
Questa continua sospensione della messa in scena, la quale diviene esercizio di ripetizione meditativa che conduce lo spettatore a identificarsi nella costante presenza a sé stesso del protagonista, trova la propria incarnazione ideale nel personaggio di Hirayama, carattere che ci appare, in accordo con quanto detto, perfettamente immerso nel proprio tempo eppure distante, quasi trasceso, da esso.
In tale dicotomia, solo apparentemente irrisolta, tra separazione (Hirayama è a tutti gli effetti un uomo analogico: non ha bisogno di alcun dispositivo per svegliarsi al mattino, non usa lo smartphone, ascolta musica degli anni ’60 e ’70 su supporto rigorosamente fisico e scatta fotografie in pellicola con una vecchia camera compatta) e partecipazione (come si diceva, il suo essere costantemente connesso con il qui e ora, la relazione di profonda affinità che instaura con la nipote Niko, ma anche, e soprattutto, la sua lucida e manifesta consapevolezza di quanto possa essere difficile, per ciascun essere umano, stabilire realmente, e intimamente, un contatto con il prossimo), Wenders imposta coordinate stilistiche e narrative immediatamente riconoscibili: il formato 1.33:1 (non dimentichiamo che Perfect Days è realizzato in digitale, senza che vi sia quindi una reale aderenza o corrispondenza vintage al modello della messa in scena; anche qui, siamo di fronte al puro gioco di segni), la macchina da presa mobile e sempre vicina a Koji Yakusho, i momenti rivelatori (come il dialogo in bicicletta tra Niko e Hirayama, o il gioco delle ombre nel pre-finale, nel quale il protagonista contempla l’effetto magico di un incontro tra mondi sconosciuti) e, ancora più importante, la rappresentazione dell’universo onirico del protagonista, vero e proprio ponte tra la sfera quotidiana e l’immagine sottesa o, meglio ancora, implicata, di essa. Sono i sogni di Hirayama, infatti, a connetterci poco a poco con l’essenza profonda della ricerca compiuta da quest’ultimo; e appare evidente, in questo senso, come Wenders inserisca queste cellule così puramente figurative, e anti-narrative, nel flusso del racconto classico con lo scopo di trasfigurarlo, o di trasformarlo progressivamente in un semplice meccanismo al servizio di un salto dimensionale, di una condizione dello sguardo che possa realizzarsi oltre il Cinema, al di là di ciò che esso può solamente evocare.
E sarà proprio il doppio finale, il primo dentro il film e il secondo oltre esso, ovvero in fondo ai titoli di coda, a mostrare definitivamente la direzione della contemplazione di Hirayama: giusto qualche attimo dopo lo straordinario close-up sul volto illuminato del protagonista, illuminazione che lo porta a ridere e piangere senza soluzione, Wenders chiude infatti il cerchio, mostrando definitivamente quel controcampo così gelosamente custodito e ritardato per l’intera durata dell’opera; ma è esattamente il Sole che Hirayama guarda ogni mattina, quando esce di casa? Oppure, egli osserva e ricerca qualcosa che si avvicini a quella luce, nel corso dei suoi giorni perfetti? Quando l’opera si è ormai compiuta, ecco che giunge la rivelazione; ma un’energia così sottile non può essere raccontata, non può trovare rappresentazione filmica, e Wenders non può far altro che superare il flusso narrativo per mostrarla in uno spazio che sia al di là del Cinema, in un frammento che oltrepassi quei codici così consolidati e definiti di cui si è servito. Per un cineasta che si sta avvicinando agli 80 anni, non è certo cosa da poco.