
TRAMA
Perdita Durango e Romeo Dolorosa: una coppia criminale esplosiva. Rapiscono una giovane coppia di gringos per fare un sacrificio agli dei, dato che Romeo è anche stregone di santeria. Nel frattempo, un boss ingaggia quest’ultimo per trasportare dei feti umani a Las Vegas, ma un agente della DEA è alle sue calcagna.
RECENSIONI
Perdita Durango sogna un giaguaro: è alla ricerca di un pretendente all’altezza della propria natura coriacea ed aggressiva, figlia di un background tragico di cui veniamo a conoscenza attraverso il racconto fatto a due bambine (con cui, evidentemente, si identifica) che giocano con le armi.
Romeo Dolorosa s’insinua nel suo percorso vitale nel luogo-cimitero, mentre trafuga un cadavere. Capello lungo con frangia, uomo-felino e stregone di santeria, corrisponde ai due motori primi della donna (sesso/eccitazione nel crimine): è reduce da un “finanziamento dalla banca” (il flashback sulla rapina rivela appieno il carattere canagliesco e sconsiderato del personaggio) e la ripaga del pericolo corso attraversando il confine con un amplesso epico ed animale.
Perdita diventa complice e musa che alza la posta, proponendo di uccidere qualcuno e darlo in pasto ai postulanti superstiziosi che assistono ai rituali esoterici (sublime la prova invasata di Javier Bardem: estrae e divora il cuore del cadavere, sputando il sangue addosso al pubblico).
Tenuto a battesimo da Pedro Almodóvar, dopo aver diretto due pellicole demenzial-deliranti diventate di culto (Azione Mutante, El día de la bestia), de la Iglesia (subentrato nel progetto a Bigas Luna) 'fa sul serio' (a livello di dialoghi, caratteri, sottotesti) con un'opera felicemente debordante che merita un posto di tutto rispetto accanto ai vari Assassini Nati e film “maledetti” con coppia criminale lasciva, blasfema e sanguinaria. I fan del regista hanno storto il naso per il cambio di rotta, il botteghino internazionale non l’ha incensato nonostante i premi (Premio Speciale al Festival Internazionale del Cinema Fantastico di Bruxelles, miglior film al Fantafestival): girata in inglese fra Messico, Arizona e Las Vegas, con un sostanzioso budget di circa 8 milioni di dollari, l’opera non è mai stata distribuita nella versione originale di 126’ (già depurata rispetto a quella di 131’ presentata al Mifed di Milano) ed è stata censurata e/o tagliata ovunque (in Italia, con decurtazione di 20’, viene distribuita fugacemente solo otto anni dopo la sua uscita).
Miope anche la critica, ferma a paragoni poco lusinghieri con Quentin Tarantino e David Lynch: lo scrittore meta-noir Barry Gifford, infatti, autore del racconto alla fonte (“59 Degrees and Raining: The Story of Perdita Durango”) e co-sceneggiatore, riprende il carattere minore di Perdita Durango interpretato da Isabella Rossellini nel lynchiano Cuore Selvaggio e, fra sangue ed eloquio paradossale del racconto, l'estetica pulp e postmoderna potrebbe ricordare quella portata in auge dall'autore di Pulp Fiction. Ma né Barry Gifford né de la Iglesia rincorrono il sequel o un cinema alla moda: il loro è un crescendo esponenziale e personale, non del tutto ascrivibile nelle tre direttrici che il cinema incentrato sulle coppie criminali ha, per lo più, sempre seguito: una allarmistica-morbosa, dove i delittuosi sono protagonisti tragici per cui non è richiesta identificazione allo spettatore; una ribellistica, da Contestazione, dove, pur commettendo crimini, la coppia è eroica contro un Sistema (più) ingiusto; una grottesca da film-maledetto, dove l’approccio estetico/drammaturgico abbraccia i due precedenti restituendo figure in cui identificarsi per gioco avendo l’alibi “morale” di un’espiazione nota e giusta.
De la Iglesia (in primis) fa qualcosa di diverso, utilizza un registro che aderisce ai personaggi e rende credibili le loro azioni, per poi iniettare ingredienti e situazioni talmente sopra le righe (ma non favolistiche come in Cuore Selvaggio e non per gioco come in Tarantino), da rinnegare tale adesione e trasportare verso un differente livello di lettura. Non compone, cioè, un’opera grottesca in cui stemperare l’alta dose di sesso, violenza e scene disturbanti; non accosta ironia e sangue per annullare entrambe; non carica all’eccesso i caratteri per vanificarne il realismo. Il suo mix di gradazioni ha del miracoloso nel momento in cui, volutamente debordante, non perde mai l’impatto emotivo del meccanismo di identificazione con ciò che mette in scena. Era il tratto distintivo anche della sua opera precedente, Il Giorno della Bestia. Da Azione Mutante, invece, eredita lo stilema del racconto barocco ma non tracimante e l’on-the-road di caccia: la traccia con i due protagonisti si interseca, per stimolanti e annichilenti paralleli Bene/Male, con i personaggi di James Gandolfini, agente della Dea altrettanto simpaticamente folle (sorta di Vil Coyote continuamente investito da veicoli) e di Don Stroud, bieco boss (pedofilo e senza onore) che, nella sua sgradevolezza, è termine di paragone peggiorativo rispetto a Perdita e Romeo.
Per quanto l’ironia stemperi alcune scene, le tracce beffarde spostano gli equilibri sotto un Cielo dove il Destino è ancor più crudele (vedere la scena in cui il padre ritrova, per caso, la figlia rapita e muore investito da un’auto mentre le corre incontro) e le numerose sequenze “oltraggiose”, attraverso l’aderenza emotiva, sortiscono un effetto maggiormente dirompente. Sono pregnanti, non un alibi narrativo, l’assenza di coscienza dei due protagonisti in scene shock e il romanticismo macabro di cui si ammantano per far fronte ad una noiosa/ridicola borghesia gringo che guarda il Mary Tyler Moore Show, allena i propri addominali e cura a lungo il proprio aspetto per indossare la maschera del “bravo ragazzo”. Una borghesia che fornisce alle loro fauci una coppia di giovani e mansueti slavati da sottoporre a “salutare” romanzo di formazione. “Voglio un bel biondino da mangiare”, dice Perdita, strega che, dietro le lenti di un sistema di valori differente, si trasforma in eroina: a confronto, ci sono il modello della sopravvivenza con adattamento e quello del vivere civile, dove le società protegge, nella bambagia, dalle belve. L’orco di Dolorosa si serve al supermercato degli omologati, finché la vorace “Erzesbet Báthory” non è soddisfatta.
De la Iglesia non edulcora ma calca la disumanità con cui la coppia maudit si diverte alle spalle dei denti-da-latte disperati: è il differente modello di comportamento adottato dalle due coppie a creare le circostanze, di qualunque natura si vestano, non la bontà-cattiveria dei singoli. Perdita Durango e Romeo Dolorosa hanno scelto, rendendolo “vero” e non inconsciamente ereditato, il proprio modello anticonvenzionale: hanno trasformato le condizioni avverse (i flashback raccontano l’humus tragico che non corrisponde alla jeu de vivre e alla famelica ricerca di emozioni/sensazioni del duo) e, ancor più coraggiosamente, hanno deciso di sfidarle continuamente nell’adrenalina del pericolo costante. I due bambocci giunti in città per divertirsi, invece, subiranno le conseguenze della propria ingenuità e indifferenza al resto del mondo. Emblematica (e girata magistralmente) la scena in cui Dolorosa e la giovane, sconvolta dalla violenza cui ha appena assistito, approdano insanguinati in una discoteca e, mentre Dolorosa inizia a ballare come in estasi, la rapita grida di orrore.
Gli stilemi ironici stranianti, semmai, assecondano il necessario distacco con cui far amare, nonostante tutto, i due protagonisti, a loro volta differenti l’uno dall’altro: “Sei speciale e ti ho insegnato a distinguere il Bene dal Male”, scrive a Romeo Dolorosa la nonna caraibica. Per quanto con concetti etici poco ortodossi, Romeo possiede un codice d’onore assente in altri “cattivi” del racconto. Perdita, invece, veste un carattere più cinico, “duro”, “oltre” di Romeo: senza dispensare sorrisi, rincorre stadi sempre più perigliosi e di sfida, come fossero “il” prodotto del suo passato tragico. “Ci fa”, con esiti più intransigenti. Romeo “ci è” e si concede ingenuità dalla prima bandite: socializza con il rapito, gli mostra il suo “album delle figurine” colmo di divinità in cui crede fermamente (per Perdita, sono tutte stronzate), gli racconta dei sacrifici umani fatti dagli aztechi e di quello di Gesù (De la Iglesia mostra, inaspettatamente, la crocefissione). Romeo è un vero “diverso”, Perdita lo è diventata: per questo, nel cinema di de la Iglesia, è il primo a diventare protagonista. Nel parallelo che mostra le diverse modalità di interazione con i pupilli che addestrano, Romeo lavora di persuasione, instaura un rapporto confidenziale e cerca di rendere allettante al giovane il supplizio che lo renderà immortale (per questo, quando il ragazzo fugge, al cimitero degli aerei, la prende male: “Mi fidavo di te!”). Perdita, invece, insegna attraversa il contrasto violento e l’umiliazione (“Uccidimi se ne hai le palle. Se vuoi vivere, non devi pensarci”). Le due affini “follie” hanno radici e motivazioni differenti, per quanto obiettivi e risultati non lo siano. Romeo prende gusto a tutto ciò che fa, Perdita agisce per incidere sulla realtà che, per reazione, sembra odiare. Il sesso, per Romeo, non rientra in un territorio negoziabile: violenta la giovane ma, di fronte alle sue proteste, non inasprisce i modi, torna alla persuasione. Più facile (e sadico) il lavoro di Perdita sul ragazzo, anch’egli inesperto in materia (de la Iglesia lo mostra, ironicamente, nella sua prima volta con un’obesa): lo monta, lo dileggia (“Sarà la tua unica esperienza nella vita”) e lo lascia inappagato, costringendolo a guardare la fidanzata eccitata da Romeo. Eppure (il sorprendente racconto evita qualsivoglia schematismo), quando Romeo è in procinto di uccidere il ragazzo che l’ha deluso, è Perdita a fermarlo. Ed è lei, nel finale, a liberare i prigionieri nel momento in cui realizza la loro evoluzione in “figli”, discepoli, animali speculari.
De la Iglesia interpreta “terroristicamente” anche la vena cinefila: lo sceriffo locale che gradisce la fellatio mentre fissa la foto di Ava Gardner (da I Gangsters), la scena dei due obesi che guardano anime licenziosi (Shin chôjin densetsu Urotsukidôji: Mataiden di Hideki Takayama), il look di Perdita che richiama quello di Tura Satana in Faster, Pussycat! Kill! Kill! di Russ Meyer (opera fondamentale per comprendere le specificità di Perdita Durango rispetto al film di Lynch). Geniale, poi, l’idea di Gandolfini (Gary Cooper) e Bardem (Burt Lancaster) che rimettono in scena il Vera Cruz di Robert Aldrich: Dolorosa, infatti, nell’infanzia fu folgorato dalla visione di questo film, soprattutto dal finale in cui il bad guy di Lancaster è atterrato dal good guy di Cooper (“Amavo i suoi denti luminosi. Voglio essere come Burt Lancaster, è un cammino verso la santità”). De la Iglesia replica questa chiusura, regalando (un atto d’amore) la Fine agognata a Dolorosa nella sovrimpressione letterale (con morphing) delle due opere.
