Recensione, Thriller

PELHAM 1-2-3

Titolo OriginaleThe taking of Pelham 1 2 3
NazioneGran Bretagna/U.S.A.
Anno Produzione2009
Genere
Durata108'
Sceneggiatura
Scenografia

TRAMA

Remake dell’omonimo film del ’74 di Joseph Sargent, con Walter Matthau. Una banda di malviventi dirotta un treno della metropolitana di New York e minaccia di uccidere i 18 passeggeri presi in ostaggio se non riceverà un riscatto di 10 milioni di dollari entro un’ora.

RECENSIONI

Che Pelham 1 2 3 sia “un film di Tony Scott” lo si evince dai primi minuti di pellicola. Sì. Perché si fa presto a dire: stile iperdinamico-ipercinetico, accelerazioni, ralenties, freeze frame, panoramiche a schiaffo e compagnia bella. Ma se tutto questo armamentario visivo sostanzialmente 90s, questa estetica da paleolitico del videoclip fosse applicata – e reiterata – sic et simpliciter dal meno rispettato dei fratelli Scott non potremmo parlare di riconoscibilità. Il punto, mi pare, è che Tony ha perfettamente assimilato questi stilemi nel suo tessuto registico facendoli suoi, e utilizzandoli non per fini gratuitamente stordenti e/o stupefacenti ma tradizionalmente narrativi; l’esposizione dei fatti, sullo scorrere dei titoli di testa, è sì pirotecnica ma nondimeno necessaria, esauriente, chiara. E che Tony Scott sia diventato, a suo modo, un regista classico lo dimostra il prosieguo della pellicola, il cui fulcro emotivo, narrativo e, (ar)diremmo, artistico, è affidato alla sobrietà del dialogo a distanza, campo-controcampo in primissimo piano, tra Washington/Garber e Travolta/Ryder. Uno snellimento della messinscena che passa quasi inosservato, tanta è l’abilità del regista nell’amalgamare più registri compositivi padroneggiati con esperienza e competenza, un’abilità che pure continua a non venirgli riconosciuta in virtù di una fama da “regista vuoto e fracassone” con la quale si tende, ingiustamente, a liquidarlo per pigrizia intellettuale. Detto questo, non abbiamo il prosciutto sugli occhi. Il cinema di Scott (specie di questo Scott votato al genere “puro”) ha i suoi limiti e le sue cadute: la retorica yankee di molti dialoghi, i patetismi di vario genere (la telefonata Garber-moglie), le forzature di alcune dinamiche interne (il rapporto Garber/Ryder), l’improbabilità di molte situazioni (l’inseguimento finale, benedetto da un parossismo di fortunate coincidenze), sono tutti difetti piuttosto evidenti che inchiodano Pelham alla sua condizione di prodotto puro e semplice, nobilitato sì da qualche glitch extra-ordinario (le macchie sul passato del protagonista, la non irreprensibile figura del sindaco di New York) ma a conti fatti ordinario se guardato dall’alto, nel suo insieme. E però, ci chiediamo, quanti, qui e oggi, possono vantare la stessa professionalità, il talento e la competenza cinematografica di TS da mettere al servizio della Buona Vecchia Hollywood e confezionare un prodotto di simil guisa?

Non era strettamente necessario per Denzel Washington acquisire peso (dipendente comunale è sinonimo di pancetta?), tantomeno rifare Il Colpo della Metropolitana (1974), soprattutto se, come qui, vengono sostanzialmente rispettate le direttrici del suo racconto di genere: ma, si sa, Hollywood spesso sforna rifacimenti solo per i ragazzini che non guarderebbero mai un film più vecchio di dieci anni. Il tutto è aggiornato, vistosamente, solo in due elementi: la regia da spot di Scott, tutta di montaggio veloce, fermi immagine ed effetti sonori, davvero fuori luogo in un racconto (tratto dal romanzo di John Godey) fondato su tensione e dinamiche psicologiche; e la sceneggiatura di Brian Helgeland che, dopo aver firmato per Scott e Washington il mediocre Man on Fire, si redime con dialoghi e profili caratteriali di tutto punto e, unica vera novità rispetto all’originale, facendo del plot un’allegoria della resurrezione post-11 settembre, nel momento in cui il suo controllore del traffico (nell’originale c’era un poliziotto negoziatore) è un simbolo della città di New York quale dipendente del Comune, e si redime da un errore/orrore del passato. Intrigante anche la specularità creata da Helgeland fra quest’ultimo e il folle criminale di John Travolta, personaggio colmo di dolore e ansia di vendetta.