TRAMA
New York: un ex-pugile e il suo amico gestiscono un’agenzia di spogliarelliste ma c’è un maniaco che le uccide.
RECENSIONI
Ad uno sguardo superficiale, sembra uno dei tanti film di serie B con serial killer, quelli che sfruttano la violenza, il sangue e il sesso per ammiccare ed essere più appetibili. La sceneggiatura del “gemello” di Abel Ferrara, Nicholas St. John, non fa che avvalorare questa lettura fra ingredienti banali e dialoghi grossolani: in questo caso, però, è particolarmente intrigante l’apologo morale sempre sotteso al loro cinema e perennemente dilaniato fra ossessioni cattoliche e lusinghe metropolitane, nella fascinosa e maledetta ambiguità che non si schiera né con il peccatore che rinnega la violenza (Tom Berenger, ex-boxeur omicida), né con l’angelo biblico della vendetta divina, né con la corruzione che pervade l’urbano sotterraneo (gli italo-americani, allora, sono i più grandi sacerdoti di queste forze del male). Il duello finale, a prima vista pacchiano, è in realtà una vera e propria “visione”, un’icona sacra e simbolica della lotta del bene contro il male, dove è arduo discernere vincitori e ruoli archetipici. St. John e Ferrara, infatti, sembrano farsi portavoce di un’opera moralistica ma, con medesimo impeto e contraddittoriamente, abbracciano anche le “tenebre”, lontani dal manicheismo, immersi in una New York che, da nuova Sodoma, ribolle di contraddizioni interne, figlie dell’essere uomini e non eroi. Ferrara è uno Scorsese horror, cormaniano, licenzioso (s’indugia sulle spogliarelliste), scopritore di star (Melanie Griffith e le sue grazie prima di Qualcosa di Travolgente; Rae Dawn Chong; Maria Conchita Alonso) e votato alla pittura cupa, gotica, squarciata dai colori al neon.