TRAMA
Un giornalista va a Las Vegas per seguire una gara motociclistica. Lo accompagnano il suo avvocato e una scorta di stupefacenti.
RECENSIONI
L’omonimo romanzo di Thompson è (in)calzante pretesto per un’overdose di Gilliam allo stato puro: mostri dalle tinte elettriche emergono da forme precarie e si sciolgono senza preavviso nella liquida giostra di distorsioni convergenti abitualmente spacciata (senza eccessivo successo) per realtà. Scorribanda forsennatamente lucida nel deserto delle percezioni (in/)umane, in cui l’allucinazione non è un veicolo per ridefinire e/o sovvertire il quotidiano ma un impietoso microscopio che dilata il più ordinario degli incubi in(de)finiti, Fear & Loathing in Las Vegas gioca con la maniera più spassosamente grottesca (la seduzione minorile con annesse pre-visioni) ma non vi si appisola, preferendo muoversi freneticamente lungo le lisergiche fratture di un sogno a occhi aperti/chiusi che ha la consistenza, il sapore, il (dis)gusto irrinunciabile di un chewing-gum (forse) letale. Da antologia il prologo e la prova magistralmente sfasata di Del Toro.
Gilliam era uno dei pochi autori in circolazione in grado di portare sullo schermo il cult della beat generation di Hunter S. Thompson, qui interpretato da un calvo Johnny Depp: delude, però, nel momento in cui ritarda e disattende l’esplosione del trip lisergico, lesinato e sussultorio, con un finale poco incisivo ed in assenza di climax. Il suo genio visionario avrebbe potuto modellare l’effetto figurativo modulandolo sulla droga assunta (solo con l’adrenocromo tinge la pellicola di rosso) o sorprendere con un crescendo, per accumulo di psicofarmaci ed alcolici, di follia psichedelica in soggettiva (alla Chappaqua). I tipi di Depp e Del Toro, invece, rimangono “drogati” allo stesso modo dall’inizio alla fine e, in mancanza di un contenuto più sapido nel sottotesto o nelle allegorie, il gioco s’avvita su se stesso nella ripetitività (Depp recita in modo marcatamente fumettistico: la vera sorpresa è Benicio Del Toro, che ingrassa e ruba la scena a tutti). Ciò non toglie che l’operazione sia scenografica, con spassoso estro figurativo (la cinepresa ondulante crea sfasamento anche nello spettatore), affascinante e coraggiosa, fra l’elegia degli outsider di Il Grande Lebowski e la tolleranza per le droghe di Trainspotting, sorretta da quell’umorismo iconoclasta e grottesco che ha fatto la fortuna di Gilliam nei Monty Python e da quell’immaginazione caricaturale/simbolica/irriverente tipica dei suoi disegni animati: le sequenze migliori sono proprio quelle in cui dà libero sfogo al “pennello matto”, chiamando Rob Bottin per dare vita a un bar popolato da mostri o a un geniale “caos” pittorico nell’ultimo appartamento devastato dai protagonisti, oppure inventandosi un Del Toro-Belzebù con mammelle e un Harry Dean Stanton deformato. L’umorismo che qui Gilliam predilige nasce dall’incontro fra “normali” (osservati sempre con disprezzo) ed “eroi” imbottiti di stupefacenti (esilarante la pubblicità-progresso contro la droga al convegno), simbolo della rivolta contro il Sistema, tipica di anni cui guarda con nostalgia, tentando (in uno dei pochi momenti “riflessivi” del film) di capirne lo scacco in rapporto anche alle fallaci chimere (il sottotitolo recita “Una selvaggia cavalcata nel cuore del sogno americano”). Fra tante ossessioni (Debbie Reynolds, i Jefferson Airplane, la bandiera americana, Tarantola, i nani), pesa come un macigno il pensiero del dr. Johnson riportato nell’incipit, per cui chi fa di sé una bestia (con le droghe), si toglie almeno la pena di essere un uomo.