TRAMA
La nave spaziale Avalon sta trasportando cinquemila passeggeri verso una nuova vita, in un altro pianeta. A causa di un guasto, Preston è l’unico a risvegliarsi dal sonno criogenico con 90 anni di anticipo.
RECENSIONI
Alla fine si torna sempre lì, a 2001: Odissea nello spazio e film limitrofi, a quegli interni ovattati dove gli astronauti fanno footing, a sistemi di rotazione che ricreano la gravità con la forza centrifuga, a quelle capsule spaziali utilizzabili in caso di avaria, a quelle tute da astronauti per uscire all’esterno, a quei passeggeri dormienti nei loro feretri, tenuti in ibernazione sospesa e pronti a essere risvegliati una volta che il lungo viaggio dell’astronave sia compiuto, per arrivare alla scoperta di nuovi mondi e civiltà, dove nessun altro uomo è mai giunto prima. È un espediente narrativo della fantascienza classica e della futurologia, quello di immaginare una tenuta in stato di coma artificiale dei navigatori di un veicolo spaziale, dovendo ipotizzare distanze molto lunghe da coprire solo in tempi superori a quella della vita umana la cui caducità rimane tale anche in un mondo ipertecnologico e avveniristico. Ogni tentativo di rifare al cinema la fantascienza classica – quella cerebrale e contorta che sfrutta i paradossi scientifici, quella che vuole guardare al futuro dell’umanità con uno stato di stupore primigenio per le conquiste spaziali, per i progressi, o i regressi, dell’umanità, quella della nuova frontiera nello spazio, dei viaggi spaziali, dei relativismi temporali, la space opera pura, quella che non sia una semplice accozzaglia di effetti speciali digitali – non può che tornare a quello spartiacque kubrickiano della science fiction cinematografica, che peraltro combacia con uno spartiacque della storia dell’umanità, lo sbarco dell’uomo sulla Luna. Non si può quindi che tornare indietro a un’epoca e al suo immaginario incantato, positivista, gravido di speranza sul futuro dell’uomo nel cosmo. È una considerazione che possiamo fare per Gravity, per il Nolan di Interstellar – con una superiore consapevolezza e capacità di rielaborazione, va detto – e anche per Passengers, l’ultimo lavoro hollywoodiano del regista norvegese Morten Tyldum. Che ha raccolto una sceneggiatura di Jon Spaihts, che circolava da anni ma che nessuno aveva ancora realizzato. Era stata proposta anche a Gabriele Muccino.
Seppur nell’ambito di una maggiore complessità visiva e scenografica, Passengers ricalca molti elementi di 2001, anche con citazioni dirette, vedi il monocolo di bordo, l’intelligenza artificiale che controlla tutto come HAL 9000 e che si dimostra non così infallibile come era stata concepita. I riferimenti tuttavia spaziano anche a Shining, nella figura del barista automa in un elegante bancone retrò tutto a specchi che cita palesemente quello dell’Overlook Hotel, e a tutto un immaginario della fantascienza cinematografica post-sessantottina: come non vedere il finale di Passengers se non come un percorso inverso a quello dell’astronave-serra di Silent Running (in italiano 2002: la seconda odissea). Certo con l’astronave Avalon del film di Tyldum siamo lontani dalla classica navicella “lineare” come la Discovery, alla forma di razzo, come una freccia diretta a un obiettivo, e più vicini alla stazione rotante, ma molto più complessa e circonvoluta, costituita da diversi ponti, corrispettivo di quella ricerca del regista, nei suoi film norvegesi Varg Veum - Falne engler e Hodejegerne, per i set in abitazioni moderniste con architetture ardite. Ma rispetto a una semplice evoluzione scenografica – peraltro gli interni della Avalon sono stati ricostruiti in grandi teatri di posa e non creati digitalmente come si farebbe sbrigativamente oggi – un altro dato balza all’occhio come divergenza rispetto ai modelli della SF classica. Una volta i passeggeri ibernati erano perlopiù scienziati mandati in spedizioni esplorative, inviati da un qualche ente governativo terrestre o meno. Se Nolan con Interstellar inventava un mondo fantascientifico sprofondato in una depressione come quella americana degli anni Venti, Tyldum concepisce un viaggio nello spazio su un Titanic di migranti verso un nuovo mondo, di aspiranti coloni che, insoddisfatti della loro vita sulla Terra, si sono lasciati tentare da nuove prospettive offerte da una società che, come viene espressamente detto in una battuta del film, su questi viaggi “della speranza” ha creato un grosso business. La fantascienza cinematografica espone quindi tutta la disillusione dei tempi moderni, anche quando si rifà ai miti classici. Il protagonista non è un novello dr. Heywood Floyd o un dr. Spock, ma un semplice meccanico adibito a funzioni tecniche, più un Montgomery Scott. E l’Avalon è proprio concepita come una grande nave crociera, un divertimentificio di lusso nello spazio, fatto di slot machine, piscine, negozi rutilanti, un grande salone, un concentrato di capitalismo sfrenato che naviga nel cosmo profondo. Tutto collima con il Titanic, simbolo dell’arroganza umana, del sentirsi in grado di concepire la megamacchina-Leviatano perfetta, ma senza considerare la variabile che può sfuggire. L’Avalon è governata da un’intelligenza artificiale kubrickiana, tanto Discovery quanto Overlook Hotel, sinistra, come si è detto. Che va verso l’inevitabile avaria. E una macchina per cui si pone il problema del tradimento verso l’uomo, come Hal 9000, l’infrazione della seconda legge della robotica asimoviana. Lo zelante barista Arthur tradisce il segreto di Jim svelandolo ad Aurora. Ma lo fa perché evidentemente sente il conflitto tra i due padroni, anche perché fuorviato da una maldestra battuta di Jim. Come voleva l’interpretazione di Arthur C. Clark, la macchina sbaglia perché l’uomo le dà ordini sbagliati.
In questo contesto il nucleo narrativo di Passengers è una storia d’amore, un romanzo Harmony nello spazio, nell’incontro tra due creature sole, un Laguna blu cosmico, novelli Adamo ed Eva, novelli Jack e Rose del Titanic. Ma è Adamo a scegliersi la sua Eva, non a caso la più bella tra gli ibernati, a compiere un atto di prevaricazione. È un amore teleguidato, programmato dalla prepotenza maschile anche se in condizioni di disperazione. Difficile infatti che Aurora non si innamori di Jim, unico uomo sull’isola deserta. Una relazione che si fonda sulla menzogna che, una volta scoperta, porta alla rottura, come succede nella vita di tutti i giorni. E il barista Arthur viene frequentato a turno come nell’affidamento alternato dei figli duna coppia separata.
Se già l’ultimo film norvegese di Morten Tyldum, il thriller Hodejegerne, si fondava sui sistemi GPS, sui cellulari, sui sistemi di posizionamento con trasmettitori posti fin nei capelli, non si può non porre in stretta correlazione Passengers con il primo film fuori patria del regista, The Imitation Game, la biografia del matematico inglese Alan Turing che ha posto le basi dell’informatica e dell’intelligenza artificiale. In questi film centrale è il tema della comunicazione, dei suoi blocchi e cortocircuiti. Il mondo della Avalon, i suoi cervelli elettronici, i suoi sistemi digitali, è risultato delle intuizioni partite negli anni Quaranta del Novecento dal brillante scienziato britannico, è il suo osso lanciato in aria. Nel rapporto che si crea tra Jim, Aurora e l’androide Arthur si può vedere uno schema come quello del test di Turing, il gioco dell’imitazione, che serve a scoprire se una macchina è in grado di pensare. Test che Arthur supera brillantemente. “Sono una macchina o una persona?” chiede provocatoriamente Turing in Imitation Game al suo carceriere. Tanto in quel film quanto in Passengers si pone il problema di risolvere un enigma. Se Turing riesce a decrittare i codici nazisti, Jim invece non riesce a lanciare il suo sos alla Terra da una cabina telefonica e non riesce a risolvere il problema del ritorno all’ibernazione. Tutto è ormai prefissato, predestinato. Non viaggiano i Turing nello spazio, o i dr. Floyd, ma tecnici in un sapere parcellizzato. Si infrange il sogno della science fiction positivista. L’ingegno umano sembra ormai perduto, fagocitato da se stesso. Non resta che lasciarsi andare in una tumultuosa storia d’amore.