Drammatico, Recensione

PARADISO AMARO

Titolo OriginaleThe Descendants
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2011
Durata115’
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Nell’isola di Oahu, la vita di Matt è sconvolta: scopre che la moglie, ora in coma irreversibile, lo tradiva con un uomo di cui era innamorata; deve gestire due figlie problematiche e decidere a chi vendere un vasto appezzamento di terreno vergine.

RECENSIONI

Non così amaro

Amaro, non immune dalla crudeltà dell’esistenza, ma meno disincantato dei finti idilli in commedia dipinti nelle opere precedenti: Alexander Payne, questa volta, il Paradiso nell’arcipelago/famiglia lo vuole preservare. In nome (Matt discende dal re delle Hawaii) e per conto dei discendenti (i figli, il futuro). A sette anni dall’ultima prova registica, un divorzio (non a caso) di mezzo (“Non tirarmi fuori i cliché sulle donne: non è mai colpa loro”), prende di petto le tragedie della vita e con esse sotterra il mansueto protagonista, genitore (e marito) di riserva chiamato nel tipico on-the-road esistenziale di Payne, quello che fotografa un bivio dove la figura maschile è costretta dagli eventi a rivedere il proprio punto di vista (“Perché le donne della mia vita si autodistruggono?”). Prendendo le mosse (con qualche libertà) dal romanzo “I discendenti” di Kaui Hart Hemmings, preserva anche la propria inimitabile poetica, fatta di tragicommedia su colline dolci, di urli di rabbia sott’acqua, di sinergia improbabile fra commozione e divertimento (una scena su tutte: la visita in ospedale della moglie dell’amante), di poesia malinconica, indisciplinata, realistica, assurda, morale e sorprendente (nei coup de théatre). Il suo cinema, smussando i toni, rende centrale il mistero del cuore umano, sondato a partire dalle apparenze che ingannano per giungere all’evidenza che tutto e tutti assolve. Ritornano l’arco vitale eroso mattone per mattone (A Proposito di Schmidt), la centralità del paesaggio (Sideways), gli elementi dissonanti che ridimensionano il copione della tragedia (il giullare molesto di Sid, i canti tradizionali hawaiani) ma è inedita la chiusura fiduciosa, con circolo virtuoso creato successivamente alla presa di coscienza in punto di Morte. Una Morte (da leggere anche come fallibilità umana) in coma, indifferente (perché terribile o bellissima) come la Natura: con entrambe, necessariamente, ci si deve confrontare per l’elaborazione e l’accettazione.

Ci piaceva ricordare la filmografia di Alexander Payne come un'opera complessiva ricca di arguzia, di cinismo intelligente (A proposito di Schmidt), senza parentesi consolatorie ma densa di racconti umani, di brandelli di vita (Sideways); un cinema insomma in grado di giocare con le regole pre-imposte e con i generi (le commedie giovanili con Election) senza cadere vittima di facili etichette o appiattirsi su stereotipi e vezzi ricorrenti all'interno del panorama indipendente contemporaneo. Ma si sa, il fagocitante mondo del grande contenitore di non chiara origine denominato indie-cinema implica l'inserimento di avvenimenti e figure collocati ad hoc in sceneggiatura (famiglia complessata, figlia adolescente, camicie a quadri e battute caustiche con un fondo tragico) che invece di dare forma a un nucleo riconoscibile e veramente in grado di criticare la società e il luogo comune, finisce per riproporsi sempre uguale e perdere mordente a ogni riutilizzo.
Decidere di ambientare il film alle Hawaii sembra costringere Alexander Payne all’inserimento di un prologo ricco di premesse non rispettate, costretto a dialogare con il film solamente per opposizione: a dar credito alla voce fuori campo la vita nella capitale americana delle vacanze non è assolata cartolina del diletto sempiterno bensì amara realtà, dramma inconsolabile, sutura di tagli (che sembrano tragicamente) insanabili.

Una premessa promettente nella presentazione dei personaggi e del loro bagaglio esistenziale: Matt King (George Clooney), avvocato di successo che sente già il peso degli anni, è obbligato ad affrontare il ruolo del padre-educatore mai  svolto prima, a causa del coma della moglie provocato da un incidente in barca; ma quello che rende il film di Payne un tentativo mancato e nebuloso è l'esigenza di voler raccontare la speculare presa di coscienza di una Morte da parte di  personaggi inconsistenti e banali le cui motivazioni e psicologie vengono minate dalla scelta meccanica del voler trovare il lato comico di ogni situazione, anche la più dolorosa. Se, infatti, il prologo ha l'urgenza di delineare lo smascheramento di luoghi comuni, subito dopo si ha la netta impressione che il cliché si renda mezzo, grammatica istantanea e unica per il procedere della narrazione: il rapporto problematico con la figlia adolescente che beve e fuma erba, il tradimento della moglie, le discussioni padre-figlia, i momenti patetici intorno al letto della madre morente.
Payne, che ha l'unico merito di affidare il ruolo di protagonista a Clooney, sembra impantanato in uno stile patinato da basso prodotto televisivo, eccede con l'inserimento di primi piani che, se accompagnati a scelte di sceneggiatura consuntamente ricattatorie, finiscono per dare al film un retrogusto di bieco patetismo, amplificato dalla melensa colonna sonora, tradizionalmente hawaiana. L'uso di ellissi per aggirare i veri momenti tragici della commedia e rifugiarsi (ancora una volta) nel sarcasmo non fa che riproporre il banale, falsificare il tragico verso un'ironia che perde il mordente di Sideways o di Election e che naufraga nel riciclo, nel prevedibile.