
TRAMA
Padre e figlio abitano nello stesso appartamento e sono legati da un profondo affetto. Il primo, un militare prossimo al ritiro, vedovo dall¹età di vent¹anni, ripone ogni speranza nel figlio adolescente, il quale manifesta però voglia di indipendenza e desiderio di decidere da sé della propria vita.
RECENSIONI
Sokurov smembra la complessità dei rapporti di sangue più dello sfruttato, esausto tema del conflitto generazionale: in tali rapporti ravvisa un'ineluttabilità che si traduce in un vincolo e in una responsabilità; in essi la condotta dell'uomo sembra obbedire a regole superiori che impongono di agire, di fare e dire le cose giuste in tempo, perché certi equilibri delicatissimi saltano, a volte in modo irreparabile. Come in Mat y Syn il legame tra genitore e figlio - estremo, incontrollato, morboso - dimostra come l'arte interviene non solo quando si è privi di qualcosa ma anche quando si vive una dimensione in eccesso, con un troppo da gestire che determina il problema della scelta: e Sokurov in Padre e Figlio ritrae questo passaggio, quello della scelta, in cui l'uomo agisce d'istinto, animalmente, gettando la ragione in un cantuccio. Un padre cerca di tenere stretto a sé il figlio - un impudico, quasi erotico groviglio di corpi, incipit di strepitosa bellezza che rimane scolpito nella memoria - non accettando la sua imminente autonomia di adulto; un figlio che, pur amando teneramente il genitore, cerca in ogni modo di affermare un sé affrancato da quello paterno. Un film, non tutto convincente, che confermando l'occhio magico del suo regista (una fotografia decolorata, interni disegnati da penombre sfumate, viraggi sopraffini) fa scivolare nei suoi ambienti, che sembrano ibernati in un tempo sospeso, una continua, ossessiva base techno.

Sembra un unico corpo quello con cui si apre il film del russo Aleksandr Sokurov e invece la visione dettagliata si allarga gradualmente fino a lasciare intendere il caloroso abbraccio tra due entità, scolpite e levigate: un padre e un figlio. Un forte e solido punto di partenza (il padre) da cui è necessario staccarsi per vivere la propria vita (il figlio). Un legame assoluto che può finire per stritolare e a cui bisogna abbandonarsi con amore per poi trovare una strada personale da seguire. Il lungometraggio affronta questo non facile connubio di affetto e carnalità con uno stile molto personale. Immagini deformate da lenti anamorfiche, una fotografia flou che immerge ogni sequenza nel talco profumato e nebbioso dei ricordi e dei sogni e una sceneggiatura che lancia tanti indizi (troppi?) per poi non risolverne alcuno. L'aspetto che più colpisce è proprio la forza della visione del regista, la sua capacità di rendere dinamica anche la sequenza più immobile. Basta vedere, al riguardo, il bellissimo primo confronto tra il giovane figlio e la fidanzata: quasi una danza di volti che giocano con il pertugio di una finestra. Meno convincente l'impianto narrativo, con dialoghi evocativi ma pretenziosi, il cui significato resta perlopiù oscuro. È curioso come il rapporto messo in scena tenda a mostrare l'amore filiale con caratteristiche di attaccamento morboso e tenerezza in genere più presenti nelle descrizioni della figura materna piuttosto che paterna. Ma questo dipende probabilmente da una diversa impronta culturale, o dalla storia personale del regista. Oppure dal tentativo di rendere tangibile la materia dei sentimenti, dando forma e consistenza alla natura più intima dell'uomo.
