Drammatico, Grottesco, Raiplay, Recensione

PACIFICTION

Titolo OriginalePacifiction – Tourment sur les îles
NazioneSpagna, Francia, Germania, Portogallo
Anno Produzione2022
Durata163'
Sceneggiatura
Fotografia

TRAMA

A Tahiti, nella Polinesia francese, l’alto commissario della Repubblica de Roller indaga, passando per personaggi bizzarri ed enigmatici, sulle voci che corrono incontrollate tra la popolazione riguardo alla presenza di un fantomatico sottomarino al largo della costa che preannuncerebbe la ripresa dei test nucleari segreti sull’isola.

RECENSIONI

Possa venire il giorno (e forse verrà presto) in cui fuggirò nei boschi di qualche isola dell’Oceania, a vivere d’estasi, di calma e d’arte, circondato da una nuova famiglia, lontano dalla lotta europea per il denaro. Lì a Tahiti potrò ascoltare, nel silenzio delle belle notti tropicali, la dolce musica sussurrante degli slanci del mio cuore in amorosa armonia con gli esseri misteriosi che mi saranno attorno. Finalmente libero, senza preoccupazioni di denaro, potrò amare, cantare e morire
(Paul Gauguin)

Fiction: quanto è frutto della fantasia e dell'invenzione
(www.treccani.com)

Fiction è la parola. Perché Pacifiction è il primo lungometraggio nel quale Albert Serra non ricorre a personaggi e situazioni storiche bensì a un presente alternativo, a una variazione sulla nostra tempolinea con personaggi inventati. Si tratta tuttavia di una divergenza più epidermica che strutturale in quanto, nel cinema fantasmagorico di Serra, Louis XIV, Casanova, i libertini erano già effettivamente ritratti storicamente accurati di loro stessi ma anche altro (allegorie, frammenti di discorsi, fantasmi) e l'alto commissario della République magnificamente tratteggiato da Benoit Magimel segue linearmente il lignaggio. De Roller, proprio come il Re Sole al tramonto, è una fiction del potere, la messa in scena di un ruolo ridotto agli aspetti cerimoniali / simbolici: iperattivista e oligofrenico gira, incontra, inaugura, commemora, sorveglia, indaga, pontifica, sprigiona tutto il suo savoir faire ma in sostanza non sa e non può niente riguardo i veri eventi. E poi ci troviamo in una fiction elevata alla terza potenza perché la Polinesia è dai tempi di Gauguin (almeno) un altrove mitico della Francia, dell'Europa, dell'occidente, un polo opposto del mito della frontiera dove l'uomo bianco va a conquistare il suo spazio extra lege, dove va per essere libero e essere sovrano; un luogo mitico della jouissance dove proiettarsi proiettando su chi ci vive uno sfruttamento noncurante, un luogo reale da soffocare attraverso l'immaginario, un luna park dell'immaginario da riempire con attrazioni e giostre a tema escapismo e disagio nella civiltà, un luogo colonizzato in senso stretto e in senso figurato da una sorta di "estremo-orientalismo" - parafrasando Edward Said - fatto di vita lenta e sana, natura incontaminata e disponibilità senza limiti alla conquista - sessuale e militare, dalle spose bambine ai test nucleari (per questo e non solo ci verrà in mente Il dottor Stranamore).
La Polinesia sembra fiction anche per i colori e i paesaggi assurdi, per le estremizzazioni. L'esperienza esotica passa attraverso i cieli infuocati e le insegne al neon, la natura spropositata e invadente, gli atolli e i nightclub e - nella scena eccezionale e scopertamente apocalittica ora dell'incontro con la promessa del surf - dall'enormità incommensurabile, soffocante e ipnotica della massa oceanica che si muove in onde colossali e dalla differenza di scala con barche, moto d'acqua e detriti, tantissimi fino a ingolfare il quadro ma infimi. La Polinesia Francese è anche un luogo liminare: geograficamente lontanissimo, innanzitutto, e poi risparmiato dalle direttrici della storia recente - come detto nel film, per esempio dal terrorismo islamico che ha colpito duramente invece le vicine Filippine e Indonesia. È un luogo naif assediato dalla storia e tale deve continuare a pensarlo il Gauguin in noi tuttavia, come insegna sorniona Agnès Varda in Du coté de la cote, "Eden" è vocabolo ampiamente traslato dal biblico al commerciale della nomenclatura di alberghi e stabilimenti balneari. L'isola somiglia alla foresta tedesca dove si radunano i libertini di Liberté, una cimitero degli elefanti dove la storia va incontro a un crepuscolo e dove prolifera la relativa follia (delirio, paranoia). L'ambiente di Pacifiction è l'evoluzione ambigua, moralmente grigia, soffocante e corrotta dell'eden pacifico dopo lo sbarco dei bianchi perciò ci riporta anche a Apocalypse Now - partendo dal tramonto apocalittico che apre il film e sempre più chiaramente man mano che il film avanza. È un luogo di traffici imprecisatamente losco dove si aggirano con ruoli e identità non meglio definiti affaristi, faccendieri, agenti segreti, diplomatici, militari... L'estremo oriente pacifico è una malaria, è un'atmosfera diffusa che seduce e corrompe, un malessere, una malattia ma anche una malia, un fatale cedimento come in Sommerset Maugham o Joseph Conrad o Amok di Stephan Zweig. Non è casuale che il personaggio più compiuto e intrigante oltre il protagonista sia la bellissima hostess transgender Shannah (Pahoa Mahagafanau). Il ruolo narrativo di Shannah e il suo rapporto con l'alto commissario non sono del tutto chiari. È in una certa misura coinvolta nei fumosi intrighi politici (nei giochi di potere o nella paranoia) anche se l'occupazione primaria sembra il gioco seduttivo con De Roller senza fine e senza fini, celibe e sterile, se non dare piacere a entrambi, come i dialoghi e la diegesi di Pacifiction il quale - come tutto Serra - è un film trans-forma/genere/struttura e non è fatto per generare bensì per formare un'immagine artificiale più seducente.

Nessuno infatti poteva aspettarsi una narrazione lineare dal regista che ha fatto della divagazione la cifra della propria poetica e del proprio metodo di indagine filosofica. Pacifiction è un film di suspense ma nel senso del "lasciare in sospeso". Non ci sono intrighi dipanati o misteri risolti e l'indagine del protagonista è una parodia di indagine, nessun subplot porta da nessuna parte e un po' si arriva alla detonazione (in tutti i sensi) per inerzia, un po' si ha l'impressione dell'azione incongrua di un demiurgo estraneo al film. Siamo sullo stesso oceano e nello stesso arcipelago tematico di una delle serie recenti più interessanti e celebrate, al netto di parecchie sbracate nella seconda stagione italiana, The White Lotus. Eppure non potrebbe essere più chiaro cosa viene dagli USA e cosa dalla Francia. Al netto della struttura che da una parte (un giallo a chiave canonico, un whodunit dove il who è il cadavere più che l'assassino) è tutto e dall'altra è bellamente ignorata, della programmaticità dei ruoli (uno per ogni istanza socioculturale) e intersezioni reciproche nella serie americana, entrambe le opere in qualche modo si interrogano su ciò che resta del colonialismo bianco e sulle relazioni di potere. Le differenze di trattamento segnalano abissali distanze teoretiche. Se in White Lotus ci sono tesi, in Pacifiction ci sono discorsi che per altro non portano a nulla di preciso. È la differenza tra tracciare un percorso autostradale e fare una deriva situazionista. Nel momento in cui il tema dell'ipotetica sostituibilità dell'uomo da parte dell'intelligenza artificiale è più caldo che mai e in cui sempre più prodotti da piattaforma sono scritti e distribuiti secondo algoritmi, il film di Serra dice cosa può (ancora) il cinema in più rispetto alla serialità, quanta più libertà e senso e autenticità ci si possa ritagliare da posizioni laterali. L'insostituibile autoriale è la possibilità del caos. Albert Serra procede impenitente e imperturbato a fare cinema d'autore - i Cahiers, ovviamente, apprezzano e ringraziano decretando film dell'anno. Questa Polinesia è quindi metafora anche per il cinema d'autore: una torre d'avorio dove si fa ancora come una volta. Una riserva di cui abbiamo bisogno? Secondo me sì, più che mai.

Il senso di Serra per la Storia non può non venire filtrato dall'aforisma più celebre su tema, quello di Marx. Più precisamente Albert Serra lo torce trattando la Storia (già fatta o in divenire) come il luogo dove tragedia e farsa esistono simultaneamente, dove la prosopopea convive con il ridicolo e non riesce a mascherarlo. Il 14 giugno, data sommamente sacra per la République, si festeggia in un casinò tra spogliarellisti. L'alto commissario (il ridicolo pomposo della sfera pubblica fin dai nomi dei ruoli) Magimel indossa completo color panna, camicia floreale e occhiali di sole come una divisa e, a un certo punto, riporta la conversazione con un militare il quale sostiene seriamente che è soltanto grazie ai risarcimenti per i danni dei test atomico di Mururoa che la gente locale ha i soldi per permettersi le cure per le orrende malattie provocate dai test stessi. Tutta l'assurda, aporetica, tragicomica ferocia del capitalismo e del colonialismo si mostra senza veli. E non è un caso che si parli, si giri attorno all'atollo delle detonazioni nucleari continuate fino al 1996 sotto presidenza Chirac, forse l'ultimo atto di colonialismo eclatante che gli europei si sono potuti permettere, una fallica profanazione e un farsi morte distruttrice di mondi, un'ultima esplosione di onnipotenza. È nell'onnipresente metafora sessuale (cfr. anche le ragazze calate nel sommergibile) e nel terrore dell'impotenza che ossessiona una civiltà senile come quella europea, oltre che nel senso beffardo per la Storia che Serra condivide appieno con Kubrick, un altro parallelo con Il dottor Stranamore.

Come detto, si giunge al finale - l'esplosione cataclisma non mostrata ma allusa dal mare tutto rosso che rima sinistramente con i tramonti da cartolina dei quali, fin dall'inizio, non ci fidavamo -  in modo stupido, anche in questo caso in piena linea Stranamore. Pacifiction è, nelle intenzioni, una sintesi tra le due massime espressioni cinematografiche della volontà di potenza, dell'assurdo e del cupio dissolvi dell'esperienza collettiva umana come si esplicitano al massimo grado nel contesto slatentizzato e sregolato ante civiltà dei conflitti bellici: Apocalypse Now e Il dottor Stranamore. È utile notare come procedendo il film si sposti sempre più dal primo al secondo - e quindi dalla tragedia alla farsa. Nel sempre più illusorio e precario dopo-storia in cui, addì 2023, ci illudiamo di vivere come in una Polinesia sempre più circondata da indonesie e filippine - e che si addice al Serra regista di controtempi e controspazi - le strutture studiate da Coppola e Kubrick per conflitti in atto, caldi o freddi, vengono deviate in tempo di pace, riaggiustando di conseguenza il rapporto relativo delle due modalità di manifestazione dello spirito della storia secondo Marx. Sarà un'esplosione a fare piazza pulita del divagare e derivare del film e dei suoi personaggi in mezzo a quel che resta del colonialismo e, fuori metafora, della civiltà occidentale in stato ultra senile. Contraddicendo gli Hollow Men di T.S. Eliot già citati dal colonnello Kurtz, ce ne andremo non meno vuoti ma "with a bang, not with a whimper". Anche la composizione del quadro filmico, sempre estremamente studiata nel cinema di Albert Serra, sembra in qualche modo debitrice della messa in scena dell'apocalisse secondo Storaro/Coppola. Non ci riferiamo solo ai già detti aspetti più evidenti (ad es. i neon e i tramonti come ossimoro dell'esotico) ma anche alla magistrale scena della perlustrazione della jungla e dell'incontro con la tigre durante una delle prime discese dalla nave, sconfinamento nell'hic sunt leones, progressione del decentramento assoluto. Così, di tragedia in farsa, c'è sempre in Pacifiction la sensazione che qualcosa potrebbe balzare nell'inquadratura da un angolo o da dietro. Come ne La mort de Louis XIV c'è un corpo solo che tiene pressoché sempre il centro. Per il resto tutto cambia: le ascendenze pittoriche da Delacroix a Bacon nelle immagini materiche di carni e tessuti si mutano per Pacifiction in un effetto diorama costante amplificato da certi leggeri fluo, dagli sfondi lievemente fuori fuoco mentre in primo piano tutto viene teatralizzato (cfr. la commemorazione della scrittrice).
"Reinventare il reale come finzione perché il reale è scomparso dalla nostra vita" scrive Jean Baudrillard. Se non che in questo caso il reale per cui si porta il lutto è il vecchio ordine del mondo: l'impero, la supremazia bianca, i valori della Rivoluzione... si va alla fine del mondo, nella provincia estrema, nel territorio d'oltremare per tenere in vita la Francia. Niente di più o di meno dell'ancien regime che tramonta insieme al Re Sole o la libertà libertina soffocata dall'Ottocento borghese che a sua volta farà le colonie: periodi storici, sistemi ideologici, forme di vita si sostituiscono, prosperano e collassano. A morire è sempre un mondo di padri: l'ultimo è il paternalista, bonario, arbitrario, parodistico, simpatico e impotente alto commissario De Roller - che però, attenzione, non può esistere senza il suo doppio speculare osceno, l'ammiraglio distruttore di mondi. Variando l'ordine degli addendi il risultato non cambia: ciò che interessa Serra è ancora vivisezionare i grandi corpi storici nell'attimo del decesso e vedere come erano fatti e cosa c'era dentro, appena prima che comincino a decomporsi.