

Davide Tarò, fondatore dell’associazione culturale torinese neo(n)eiga, offre alle stampe una rara monografia italiana su di un autore ancora poco apprezzato e conosciuto, nonostante il culto nato intorno alla sua opera Ghost in the Shell (che per Tarò è quasi una parentesi che svia il pubblico dalla vera anima oshiiana, che non è cyberpunk o visionaria). Il saggio (invero più simile ad una tesi universitaria) è in vendita solo per corrispondenza, connettendosi al sito Morpheoedizioni: la neonata casa editrice, dalla grafica essenziale e non sempre accurata, ha però coraggio e originalità (per il tipo di pubblicazioni) da vendere. La prefazione è di Andrea Fontana. Nell’Introduzione si tirano le somme di quanto ci aspetterà nelle pagine successive: analisi dell’evoluzione della poetica di Oshii, fino alla nascita dell’ossessione tematica e scenografica per il “dopoguerra” in cui si muovono i cani non/cani “Kerberos”, e disamina, partendo dalle sinossi delle sue opere (con troppa dovizia?), dell’universo immaginario (e non) in cui Oshii muove i suoi personaggi. La dichiarazione di Oshii sulla Settima Arte come “Messa in scena truffaldina ed astraente dalla realtà (…): i film sono qualcosa di malvagio…” non viene, purtroppo, approfondita, anche perchè Tarò è totalmente rapito dagli assi in cui costringe la filmografia dell’autore e con cui, con premura da tesi, appunto, sottolinea l’autorialità e ribadisce i fil-rouge, come a voler essere preso sul serio dal suo fantomatico relatore/lettore. Però scopre in modo attento ed arguto i temi fondanti la sua poetica, a partire dalle prime prove registiche (tre episodi della serie “La battaglia dei pianeti”, 1979) e dal primo successo, 128 episodi della serie “Lamù, la ragazza dello spazio”, di cui Tarò è un evidente, fanatico amante, dato che non smetterà, per tutto il libro, di citarla e infilarla a fianco e/o sopra le future opere ben più impegnate (ma non più riuscite, sia chiaro) e personali. E’ indubbia la perizia e buona conoscenza dei dati tecnico/storici (del mondo anime/manga giapponese), ed è ottima l’analisi critica delle opere fra primi stilemi (la preminenza del significante sul significato, il multilinguismo formale, le influenze bibliche, il riciclo di vari miti dal mondo), prime ossessioni, primi caratteri ricorrenti (i cani solitari, gli investigatori, gli angeli), per scavare addirittura nella visione esistenziale e filosofica dell’autore (e del Giappone tout-court). Arrivano la saga dei Kerberos, i primi film dal vero (RED SPECTACLES, 1987), la saga di PATLABOR (che traghetta il regista verso un “realismo assoluto”): Tarò si sofferma, però, sulla ricorrenza di figure, simboli e matrici dei racconti. Se c’è un appunto da fare, è la quasi totale mancanza in questo saggio di un’analisi estetica/critica dell’animazione, del tipo di tratto, del segno/disegno animato “puro” (quali influenze, quale grazia dei movimenti, quali geometrie, quali fonti iconografiche ecc.) di Oshii. Come se Tarò subisse il pregiudizio d’inferiorità dell’animazione nell’ambito della critica cinematografica e si limitasse a trattare le opere di Oshii solo come film dal vero.
Per giustificare il sottotitolo della sua opera dedica poi pagine intere all’Uovo oshiiano (che rappresenta l’universo, l’esistenza tutta). Interessantissime l’analisi della figura femminile (intermediaria privilegiata fra mondo reale e divino) e quella sull’uso simbolico del colore. Una parte del saggio analizza i modi della regia e delle inquadrature, cercando (e ci riesce) di dimostrare che quella di Oshii è “La regia della spaesata stasi”….dentro l’uovo… Ecco allora i dialoghi, la disposizione spaziale dei personaggi, l’uso di luci e ombre. E’ un capitolo assolutamente intrigante che poi, purtroppo, si perde in un elenco della spesa di tutti i tipi d’inquadratura con relativi esempi. Un altro capitolo è dedicato all’ultima opera del regista, INNOCENCE, presa a spunto per l’ossessione oshiiana delle “bambole/automi/pupazzi”, specchio dell’essere vivente.
_x000D_Veniamo al “bello scrivere”: ogni opera di Oshii è presa e ripresa a caso nella geografia del libro. E’ un pro-forma la sistemazione per capitoli, dato che quest’ultimi non hanno per lo più contenuti unitari, sono sovrapponibili, ritornano sugli stessi temi, in un divagare sognante. La scrittura non è fluente, la sintassi usa molte subordinate, tutto è discorsivo e poco sintetico. Ricorda qualcuno? Tarò è figlioccio del caos (leggi: passare di palla in frasca) ghezziano ma, per fortuna, il suo entusiasmo (anche contagioso) lo salva dal non trasmettere (non ho detto “dire”) nulla o parlare solo come Mr. Fuoriorario, col canale cerebrale.