TRAMA
Tre epoche di storia tedesca attraverso l’intensa vita dell’artista Kurt Barnert, dall’affetto per la zia Elisabeth al complicato rapporto con il suocero, l’ambiguo Professor Seeband che, disapprovando la scelta della figlia Ellie, cerca di porre fine alla relazione tra lei e Kurt. Quello che nessuno sa è che le loro vite sono già legate da un terribile crimine commesso da Seeband decenni prima.
RECENSIONI
Non sta scritto da nessuna parte che un artista debba restare per tutta la sua carriera fedele al medesimo stile. Bisognerebbe, tuttavia, che uno stile ci fosse. Al netto di un esordio alla regia che fece gridare al miracolo (Le vite degli altri, 2006, Oscar al Miglior Film Straniero) e di un disastro autoriale – anzi, forse il disastro autoriale per eccellenza degli anni 2000 – che resterà negli annali per la sua bruttezza epocale (The Tourist, 2010), Florian Henckel von Donnersmarck è un enigma irrisolto, su cui magari un giorno qualcuno scriverà in modo ampio e ragionato. Già il fatto che Opera senza autore arrivi dopo 8 anni di silenzio dice tantissimo: il tonfo hollywoodiano senza paracadute è stato tanto e tale da provocare una pausa di riflessione, un ragionamento sul proprio statuto di regista. O, perlomeno, a noi piace pensarla così. Dicevamo: e lo stile? Cosa ci aveva fatto vedere von Donnersmarck, a soli 32 anni, con Le vite degli altri? Ci aveva mostrato, essenzialmente, un prodigio: il perfetto equilibrio di potenziale romanzesco e spunto storico, di “giusta distanza” morale e narrazione anti-retorica. Tutto, in quel primo lungometraggio, funzionava in modo stupefacente, al punto da far pensare ad una sorta di incoscienza creativa. Il romanzo, la Storia e il discorso etico sono ben presenti anche in Opera senza autore. Incredibilmente – quasi con precisione chirurgica – invertiti di polarità.
Opera senza autore abbraccia oltre trent'anni di Storia nazionale tedesca, dagli anni '30 agli anni '60. Il nazismo, il realismo socialista del blocco Est, la Guerra Fredda: le stagioni che hanno attraversato la Germania del '900 vengono viste attraverso lo sguardo del giovane Kurt, che da bambino impara l'arte (degenerata) dalla zia Elisabeth e da adulto diviene a sua volta artista intento a esorcizzare i feroci drammi del passato. C'è chi in questo lasso di tempo post-veneziano (la pellicola era in concorso a Venezia 75) ha caldeggiato l'affascinante ipotesi che il lavoro di von Donnersmarck possieda una consapevolezza meta-cinematografica raffinatissima. Possibile che il feuilletton dalla grana grossa e dall'impianto para-televisivo che si srotola davanti ai nostri occhi per oltre tre ore, snocciolando una scena madre dopo l'altra senza la minima coesione fra le parti, sia frutto di una mirabile coerenza, quasi di un sabotaggio in nome dell'Arte? È più facile (e quindi più corretto?) pensare ad altro: ad un progetto che sfugge di mano, ad esempio, troppo grande e troppo articolato per poter essere tenuto a bada. Rimettendo mano ai suoi vecchi stilemi, von Donnersmarck non riesce più a maneggiarli, a replicarli, pur tentando di emularli pedissequamente. L'ampio respiro di allora diventa qui successione sincopata e incontrollata di registri, che da melò si fanno thriller sfiorando anche l'alleggerimento comico (la famigerata scena della fuga sull'albero). Il riferimento al Reale calibrato con minuzia resta ora impigliato in una patina bidimensionale che, invece di essere utile per una visione distaccata e oggettiva degli eventi, gela qualunque emozione rendendo sterili tragedie e gioie, momenti di distensione e di tensione. Il racconto privo di sbavature e sovrastrutture ammirato ieri scolora oggi in una didattica amorfa da proiezione scolastica.
Si ha la sensazione che von Donnersmarck voglia disperatamente riavvolgere il nastro e tornare al 2006, a quella volta in cui tutto gli riuscì in modo magistrale, per offrirci una copia conforme che lo riabiliti e sancisca finalmente il ritorno ai livelli per i quali era stato incensato. Ma non può, non ci riesce, non ricorda come si faccia, e tutto quello che gli resta fra le mani è un affresco posticcio, forse funzionale ma totalmente privo di inventività, di epica e di anima. Forse c'è consapevolezza in Werk ohne Autor, ma sembra si avvicini non tanto all'idea di rinascita quanto a quella di resa incondizionata, di epitaffio artistico: il regista alza le mani e si arrende, restituendo al pubblico un film talmente impersonale e anonimo che potrebbe essere stato girato da chiunque. Opera senza autore è un'opera senza autore. Ma per ferma volontà o per drammatica necessità?