
TRAMA
Andy e Hank, due fratelli in gravi difficoltà economiche, decidono di rapinare la gioielleria di famiglia.
RECENSIONI
May you be in heaven half an hour, before the devil knows you're dead.
(Proverbio irlandese)
'Il totale è sempre la somma delle parti'. Così Andy descrive la sua attività di contabile, ma nella pellicola accade l'esatto contrario: i tasselli si ribellano, la trama si dibatte, niente va al suo posto. A 83 anni Sidney Lumet gira un film inattaccabile, l'incisione di una famiglia nera che suona come metonimia di un'umanità ringhiosa e compromessa. All'inizio le relazioni sono già sfilacciate, i dolori passati hanno messo radici e accendono la miccia per l'esplosione. Before the Devil knows you're dead, che esce in Italia con il curioso titolo (si fa per dire) Onora il padre e la madre, si fregia della scrittura lapidaria di Kelly Masterson, finora autore teatrale; è così che nella sequenza iniziale, una copula passionale tra Andy e Gina, serve appena una battuta (In questo posto non mi sento una merda totale) per connotare i protagonisti e suggerirne i rami secchi del vissuto. E' il tratto caratterizzante: in confezione falsamente tradizionale e pacchetto a prima vista di solo mestiere (il quale non manca, anzi), sempre e comunque resiste il dato disorientante. Prospettive, inquadrature, sguardi e dialoghi spostano di poco la prospettiva e scavano nella polvere di queste vite angolose: cosa è accaduto prima nella famiglia Hanson resta sottinteso ma emerge con violenza, attraverso rigurgiti di livore e accuse incrociate, con generalizzata assenza di speranza, e ingigantisce ossessioni non solo americane; laddove ricorre il termine 'fallito', tutti lo sbattono contro tutti e lo confermano alla prova dei fatti, provano a lasciare questa condizione ma vi si ingarbugliano irrimediabilmente. Lumet, da parte sua, innesca un'astuta falsa pista: nella prima parte finge il 'film a destrutturazione temporale', per un po' lo tiene vivo ma poi lo abbandona, focalizzando quindi sul nidus da intendersi come drammatica successione di disgrazie. La messinscena ipertrofica della tragedia: le cose vanno sempre peggio, lo scuro si annerisce, quando lo script sembra prossimo allo scioglimento è solo per versare un'altra goccia di sangue. Punti di visione rimarchevoli, impeccabile divisione dello spazio scenico, plausibilità di scambi e raccordi narrativi: i personaggi non dicono la storia ma la vivono. Fino alla chiusura, che rimarrà: dato che l'esecuzione si consuma in famiglia, logicamente, l'arma prescelta non può che essere il cuore. Il cast è odioso quindi amabile: dal mefistofelico Seymour Hoffman, che continua negli anni a scalare posizioni esaurendo gli applausi, al paranoico Hawke, nervi scatenati dietro la parete della forma; dalla seducente Marisa Tomei, che non è femme fatale in quanto alla deriva, al solito Finney perfino pleonastico nella sua prova espressionista. Il regista, dissipando l'ombra di senilità sulle recenti prove (su tutte Prova a incastrarmi), fa il film sull'abisso domestico che non riesce alla media del cinema Usa; il contrario di Mystic River, perché il nucleo non resta coeso a ogni costo ma si sfalda in verticale, meno pomposo e artefatto, seriamente anti-consolatorio, che ci inchioda alle brucianti irresponsabilità famigliari. Per accumulazione. Lumet è vivo, il diavolo deve ancora aspettare.
