Drammatico

OLIVER TWIST

Titolo OriginaleOliver Twist
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2005
Durata130'
Sceneggiatura
Tratto dadal romanzo di Charles Dickens
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Londra 1800: la storia dell’orfano Oliver Twist.

RECENSIONI

La città livida e maligna, vorace puttana dei suoi sudditi, ha un nuovo figlio ribelle: il percorso ovattato di Oliver è fuga dall'ortodossia del degrado (degli altri, di sé stesso), un volo impazzito sotto il cielo plumbeo di una società affamata e corrotta dove il confine tra Bene e Male è sfumatura, la chincaglieria borghese incontra il pendaglio da forca. Polanski, deponendo la Storia per una semplice storia, risolve trionfalmente una doppia operazione: traspone Dickens come mai si era visto, in un film di commovente generosità espressiva (una Londra ricostruita a Praga che intimidirebbe Scorsese) e superbo sincretismo narrativo (tanti intrecci si sfiorano - dall'ebreo alla prostituta - in un set nebbioso e lunare), e ad un tempo adatta il suo (e soltanto suo) cinema. Ripassando lievemente le amate suggestioni (la soggettiva, lo sguardo alterato: personaggi che spesso si 'affacciano' sulla storia come IL PIANISTA, la camminata sul tetto è puro FRANTIC) evita ogni trappola del film per bambini: prima che (il rispetto di) un topos Oliver è velenosa metafora, densa di sfacciato humor caustico, rigorosamente articolata contro tutti i pioli (i piani alti del collegio si ingozzano mentre i cuccioli fanno la fame), la purezza stuprata dalla necessità, il dettato ontologico del male necessario. Un canto strozzato fra la sorte e la morte: stante la burla grottesca dell'orribile William Sykes che si impicca da solo il film provocatoriamente chiude mostrando, filtrati dai vetri di una carrozza (oppure cinepresa), i preparativi per l'ennesima forca. Oliver è salvo, si stringe il nodo scorsoio. Nelle mani di un maestro, nei corpi di un cast stupendo (la sobrietà di Barney Clark contro tutti i 'bambini prodigio'), l'inquieta giovinezza di un classico invincibile.

Sarebbe difficile immaginare una trasposizione del romanzo di Charles Dickens più brillante, asciutta, efficace, emozionante di questa. Regista e sceneggiatore non si dilungano in episodi divaganti e personaggi eccentrici, in passaggi didascalici, per concentrarsi su una ricreazione per forza di sintesi – visiva non meno che drammaturgica – dell’universo e delle atmosfere dickensiani: frutto di una scelta stilistica e poetica compiutamente perseguita (i movimenti della m.d.p. nella workhouse o durante i confronti col coro degli adulti sono altrettanti colpi di fioretto intinto nel curaro, mentre quelli delle scene d’azione potrebbero essere dei modelli di genere), che conserva fedeltà allo spirito romanzesco attraverso non rare elusioni della sua lettera. Liberato dalla pesantezza dei complicati ingorghi narrativi, dall’invadenza cronachistica, dalla necessità di offrire una consolazione definitiva, Dickens rifulge nella dimensione avventurosa e nella costante vena satirica, ma con l’ammirevole leggerezza che deriva dall’aver valorizzato al massimo, in dialoghi e immagini, l’antifrasi, e dall’aver messo la sordina ai toni predicatòri, melodrammatici, sentimentali.
Viene così esaltata, dello scrittore inglese, l’autentica forza espressiva e più profondamente etica. I cieli plumbei e piovosi, di rado squarciati dal sole; il livido fango e i vicoli della capitale; il brulichio della folla; la facile morale, sempre dalla parte delle apparenze, che accomuna borghesi e popolani; lo sfruttamento del lavoro minorile, perpetrato dalla società industriale sotto la protezione del Padreterno; le facce indifferenti delle autorità e il loro agire ottuso; le parentesi di bontà disinteressata; lo sguardo sul mondo di un’infanzia offesa, in bilico fra il consegnare se stessa alla violenza della lotta per la sopravvivenza e l’ostentare la propria onestà e il bisogno di solidarietà e d’affetto come uno stendardo semplicemente folle o pericolosamente ingenuo: il buffo, il patetico, il drammatico, il grottesco del teatro del mondo attraversano lo schermo con la rapidità e il tocco impalpabile del grande cinema.
L’eleganza figurativa, con frequenti richiami pittorici, non è fine a se stessa: se la natura minacciosa, l’orfanotrofio, la Londra affollata brumosa e stracciona, i quartieri benestanti o popolari o malfamati, il mercato, il tribunale sono magicamente ricreati sulla scorta della pittura d’ambiente del primo Ottocento, l’atmosfera satura di tragedia che introduce la finale scena del carcere – nell’ambiente fumoso fiocamente illuminato e nella sghemba e sinistra prospettiva – è degna di Tintoretto.
I tipi umani sono tratteggiati con scattante efficacia, grazie anche a una magnifica galleria di volti; naturalmente, il primo piano spetta al protagonista e all’ “ebreo rinsecchito” Fagin; nell’incarnare il quale, Ben Kingsley dimostra la verità del giudizio di Chesterton (che fa il paio col celebre giudizio di Baudelaire su Balzac), secondo cui i grandi personaggi dickensiani sono creazioni non già realistiche ma visionarie. Barney Clark è poi straordinario nel vestire i panni di Oliver: rappresentate di rango di quelle figure docili e vulnerabili la cui mitezza incontaminata le condannerebbe alla rovina, se un provvidenziale intervento esterno non le conducesse in salvo.
Ma l’amara saggezza di Polanski sa che la felicità può essere solo una promessa o una speranza, fragile e fallace come lo sono tutte, e ci nega il lieto fine troppo conciliante regalato da Dickens al suo pubblico. Il bambino compie un sublime gesto di pietà e di perdono verso il suo aguzzino, poi cerca un precario conforto alla propria pena – la ferocia della società non conosce termine – nell’anziano padre putativo: i suoi occhi hanno visto e sanno troppe cose, come quelli del bambino Roman scampato alla Shoah, per tornare a sorridere. Solo il vento, forse, potrà un giorno alleviarne il cuore.