Thriller

OCCHI DI CRISTALLO

TRAMA

L’ispettore Amaldi indaga su un serial killer chiamato L’Impagliatore.

RECENSIONI

Un grossolano errore grammaticale mi pare il commento più appropriato al lavoro di Eros Puglielli il quale, forte di un notevole battage pubblicitario, è stato lanciato come l’ennesima rinascita del genere. Evidentemente esiste una schiera di nostalgici che aspetta Godot da un discreto ventennio, ripetendosi sottovoce “domani andrà meglio” e riponendo periodicamente in prodotti come OCCHI DI CRISTALLO le proprie sopite speranze. Dispiace, perché nello specifico il film è proprio brutto: fin dall’inizio si smaschera l’idea fondante di Puglielli, convinto che muovere freneticamente la cinepresa equivalga al termine “riprendere”. Un vago mal di testa irrompe dunque fin dalla prima scena (classico inseguimento) e ci accompagna per l’intera visione, imponendo un’estetica ai margini del videoclip; l’effettiva durata della pellicola è di cinque minuti, riuscendo conturbante la scena del primo omicidio (degno del mostro di Firenze, con una cicogna come ospite d’onore) per poi avviarsi sulla strada della perdizione. Il regista si butta via sciattamente cominciando ad argenteggiare senza pietà: il maniaco che ripassa le dita sopra i propri feticci è un copia-incolla da PROFONDO ROSSO, così come l’ossessione per le bambole ricorda qualcosa, mentre le scene dei delitti puzzano di Fincher lontano un miglio. Inutile e frustrante elencare la lunga successione di svogliati stereotipi (la tragedia nel passato dell’investigatore, il mistero dalle antiche radici, lo scontro finale sulla scogliera....) che gambizzano la pellicola condannandola a girare a vuoto; sei mani si sono affannate per scrivere una sceneggiatura irresistibile, costringendo il sottoscritto a tenersi la pancia dalle risa (l’autentico scult: Amaldi osserva la scritta dell’assassino sul muro e commenta: “E’ latino” – silenzio- “E’ sangue”...). Dunque un film divertente: è tutta questione di intenti. Ma non sempre: non vi è davvero nessuna soddisfazione a riconoscere il colpevole appena questo entra in scena, né nel subire la miliardesima grossolana frase di lancio: Certi pensieri non devono essere pensati. Per non parlare di certi film...
Lucia Jiménez, elogio della forma, fa rimpiangere Elisabetta Rocchetti ne L’IMBALSAMATORE (e ce ne vuole); Lo Cascio per l’occasione disimpara a recitare e rimpiange i tempi d’oro dell’accademia, quando un’unica espressione era sufficiente fino al cambio dell’ora. Ma qui purtroppo non suona la campanella, anzi gli effetti sonori di Francesc Gener (fermate quest’uomo) sono ridondanti come una serata techno con il dj sotto acidi. E, come tutti sanno, in questo genere di film il trambusto assordante non fa esattamente rima con la freschezza di idee. Si cerca Argento e si trova grezzo metallo arrugginito: un tonfo sonoro e fastidioso per la gioia del vostro otorino.

Dice bene il viso da Gioconda di Lucia Jimenez, verso la conclusione del film: "A volte succedono cose che non hanno senso!". Il lungometraggio di Eros Puglielli ha infatti il sapore della nostalgia, ma per fare rinascere il cinema di "genere" in Italia (anche se trattasi di co-produzione) non basta scopiazzare in malo modo la fortunata stagione degli anni Settanta. Gli elementi ci sono tutti: un assassino seriale, una colonna sonora invadente, una rosa di sospettati male assortiti, ambientazioni di ricercato squallore urbano e fasto decadente suburbano, enigmi complicatissimi disseminati tra un delitto e l'altro e, soprattutto, il pedale dell'accelleratore sulle truculenze. Purtroppo le buone intenzioni cozzano con una sceneggiatura involontariamente ridicola, che accumula gli eventi con il solo scopo di raccordare in qualche modo le sequenze. Il sangue scorre a fiotti ma la soluzione del mistero, con la scoperta di assassino e relative motivazioni, non aggiunge granche' al racconto, anzi, e' la prima cosa a dissolversi nel ricordo. Sono proprio i personaggi a non godere di sufficiente spessore e ad aggrapparsi come possono ai pochi aggettivi cuciti loro addosso dal copione: poliziotto violento e triste, studentessa ingenua, madre autoritaria, malato terminale preveggente, chirurgo possessivo, dottoressa porcona, e cosi' via. Tra le chicche di umorismo involontario, la dolorosa confessione del trauma (ma va?) subito dal protagonista, con battute di dialogo cosi' rifritte da poter essere facilmente anticipate (provate, puo' essere divertente). Quanto alla messa in scena, il videoclip si affaccia piu' volte sul luogo del delitto e il soffermarsi della macchina da presa su armi, parti del corpo, dettagli scenografici, ricorda non poco la morbosita' e il rigore di Dario Argento. Il problema, pero', e' che l'imitazione di un modello non garantisce un risultato apprezzabile. I brividi, infatti, sonnecchiano alquanto, perche' l'atmosfera e' piu' imposta che indotta e la paura non ha mai il tempo di uscire allo scoperto, sempre bruciata dal prevedibile evolversi degli eventi. Di pari passo la bassa resa recitativa del cast (in questo Puglielli coglie in pieno lo spirito seventy), a partire da Luigi Lo Cascio, completamente fuori parte e con un'unica espressione catatonica a sostenere la rabbia del suo personaggio. Il finale scimmiotta "Seven", ma senza il coraggio di scelte radicali, anzi!