
TRAMA
Rudolf Nureyev: dalla dura infanzia nella grigia città di Ufa, sino agli studi a Leningrado e al successo come membro del balletto di Kirov. Incontenibile e ribelle, in tournée a Parigi nel 1961 viene marcato stretto dal KGB…
RECENSIONI
«Sono immensamente felice, ma a volte mi risveglio la mattina con la terribile sensazione che sia tutto finito e che in fondo non abbia mai significato più di tanto. Non ho alcun desiderio di venire presentato come il fenomeno del momento. Viaggio da un paese all’altro. Sono una non-persona nei luoghi in cui sono diventato una persona. Sono apolide nei luoghi in cui esisto. Così è. E così è sempre stato, forse addirittura fin dai nostri giorni passati a Ufa. È la danza, e solo la danza, a mantenermi vivo.»
Non è Rudolf Nureyev a vergare la lettera alla sorella Tamara, datata giugno 1964, nonostante la prima persona possa ingannare chi legge. Si tratta infatti di una missiva dichiaratamente apocrifa, contenuta nel romanzo La sua danza (Dancer, in originale, con la pregnanza che la lingua inglese consente) di Colum McCann (Marco Tropea Editore, 2003).
«In Colum McCann's beautiful, floating novel about Nureyev's life and art, the dancer's sister becomes Tamara, and his niece, Nuriya. Undoubtedly this is for legal reasons, but it easily reflects the distance, the gulf in worlds, between Nureyev and his family…», scriveva Peter Kurth sul New York Times.
Lo scrittore di origini irlandesi ha tentato di sublimare nella parola ciò che si può percepire dell’essenza di un mito, nella consapevolezza – croce e delizia di ogni artista che riflette su se stesso e di ogni artista che parla di un altro artista, o lo dipinge, o lo filma – che esista un quid imperscrutabile – la non-persona – che di quella mitologia è elemento fondativo.
Sull’icona ingombrante, il ballerino che il giornalista Gian Luca Bauzano accosta a Maria Callas, coniando la locuzione di «recitar ballando», sembra almeno in parte incagliarsi la volontà del biografismo allegorico di Ralph Fiennes, qui alla sua terza prova da regista, dopo Coriolanus (un altro esiliato, anche se con dinamiche del tutto diverse) e The Invisible Woman.
Lontano dall’approccio di Jarman che riuscì, per il suo Caravaggio, a intingere la macchina da presa nell’ocra e nei bruni di Michelengelo Merisi, rivelando la propria intrinseca natura di opera d’arte nell’opera d’arte, Fiennes sceglie una geometria compositiva che in più di un’occasione mal si concilia col temperamento flamboyant di Rudy, anche del primo Rudy, il divo in fieri, e con la stessa muscolarità del gesto atletico dei danzatori.
L’attore britannico, aiutato dal drammaturgo e sceneggiatore David Hare, si ispira a un episodio specifico, narrato nella monumentale biografia, pubblicata in questi giorni anche in Italia da La nave di Teseo, di Julie Kavanagh, e mantiene un dialogo costante fra un prima, congelato e desaturato, a livello cromatico, e un dopo, acceso dei pastelli di una consapevolezza che si fa via via più netta. Il casus belli della defezione – tutto però ha a che fare con la danza, con la libertà che essa esige, non con la politica, precisa Pushkin, mentore e sorta di alter ego paterno, interpretato proprio da Fiennes, prima che la camera ci indichi la direzione, dalla terra alle nuvole – è dunque la tournée parigina del Kirov Ballet, al quale Nureyev viene ammesso non senza riserve, a causa dell’indole poco incline alla mediazione. Siamo nel maggio del 1961 (la defezione è datata 16 giugno, giorno della partenza della compagnia per Londra), poche settimane dopo l’invasione della Baia dei Porci e alla vigilia della cosiddetta Crisi di Berlino, con il confronto tra i due blocchi al checkpoint Charlie e la costruzione del Muro. Nella capitale francese, dove il giovane Nureyev, oltre a poter ammirare dal vivo i capolavori esposti al Louvre, scopre le evoluzioni dei café chantant e i manufatti repubblicani, i rimandi al tempo del ricordo si fanno più fitti.
È quando riesce a lavorare sulla soglia, abbandonando il didascalismo dell’assioma, che Fiennes mette a segno i colpi migliori; se infatti può risultare quasi tautologica la sottolineatura sull’arte che nobilita la realtà e non è abbastanza profondo, poiché troppo poco indagato, a livello narrativo, il rapporto tra il ballerino e Clara Saint, figura essenziale nell’escalation che culminerà con la richiesta di asilo politico alla Francia, The White Crow è più interessante quando svela la propria sostanza di coming on age tardivo (del resto Nureyev è stato anche un danzatore, per così dire, tardivo, avendo cominciato a studiare da professionista in ritardo rispetto a ciò che il canone agonistico di solito prescrive): «il padre lo ostacola in ogni modo ma lui comincia a prendere lezioni di danza da un’anziana insegnante, la signora Udelstova che fu ballerina dei gloriosi “Ballets Russes” di Diaghilev. All’età di 101 anni la signora Udelstova ricorderà il suo allievo come “un monello malvestito, selvaggio, con un orecchio perfetto per la musica.” A 17 anni, un Nureyev senza un soldo in tasca si diresse verso Leningrado e il glorioso Balletto Kirov. Venne ammesso e la sua ascesa alla fama fu fulminea» (Carlo Camboni, Amedit n. 14 – Marzo 2013).
La visione del piccolo Rudy, abbandonato nel bosco come Pollicino, con un fuoco sempre più flebile a riscaldarlo, ci fa pensare a un inserto onirico. Ciò esemplifica di certo la fredda severità del padre, in contrasto con la mite amorevolezza materna, ma anche il mancato senso di appartenenza a una nazione che, in ultima analisi, tenta di soffocare la vis del genio – un genio della danza, nel caso specifico, dotato più di una forza emotiva incontenibile che di raffinata tecnica, tanto che, anche a livello metatestuale, il protagonista ritiene che Sergei Polunin, qui chiamato a interpretare Yuri Soloviev, sia più capace di lui – sotto le regole del burocratismo statalista e della propaganda. Vi si contrappone la magniloquenza gotica della Sainte-Chapelle, luogo simbolico dove Rudolf dichiara di voler vivere. Più evidente lo slittamento di senso della scena dell’abbraccio con il padre militare, un contatto ancora una volta gelido, imposto. La sintassi filmica congiunge l’immagine con la visione del dipinto, dai, di contro, colori caldissimi: Il ritorno del figliol prodigo di Rembrandt; i due rientri non potrebbero essere più differenti anche sul piano metaforico: un probabile rimpatrio dovuto a una licenza, nel primo caso, un espatrio permanente, se si eccettua la visita in Unione Sovietica al capezzale della madre, nel 1987, nel secondo. Da una parte l’eterno approdo all’ordine, dall’altra la violazione delle regole in nome di un ritorno alla libertà.
Rudy, come molti grandi, è un solista, e la libertà, assaporata e poi agognata, passa da una porta – lasciata non a caso aperta (una porta, non più muri) – che segna, anche da un punto di vista cinematografico, l’attraversamento di un confine; vi si giunge al culmine di una sequenza agitata, ma, paradossalmente, statica, incapace di trovare il ritmo del pericolo, dell’urgenza.
Di nuovo il montaggio compone un’immagine di Nureyev bambino con quella dell’uomo adulto, ma qui la risultante è la perfetta fusione tra le due quinte posizioni: passato e presente possono guardarsi ormai senza incertezze. Come Pollicino, Rudy è cresciuto attraverso l’esperienza traumatica del passaggio.
Proprio la paura, quella che il ballerino scacciava durante la prima esibizione parigina, la cui conclusione rimandava a una shakespeariana orazione, sembra non trovare più posto sul volto fiero di Oleg Ivenko, danzatore anch’egli, qui alla sua prima prova attoriale. E spiace pertanto che The White Crow osservi le profondità di Rudolf il ribelle, senza mai avere il coraggio di tuffarsi dentro, di sperimentare il dinamismo del ballo come cifra stilistica in grado di oltrepassare i confini del proprio linguaggio, di rileggere secondo una chiave personale, non tanto l’artista, quanto il mito in divenire.
Peccato che si fermi prima, magari schiacciato da un timore reverenziale che suggerisce ogni sorta di prudenza, non tributandoci e non facendoci tributare da Nureyev uno dei suoi impeccabili, celebri manège.
