TRAMA
Fra i confini di Siria, Iraq, Kurdistan e Libano, il racconto di un’umanità a cui conflitti, Occidente, tirannie e terrorismo hanno portato via tutto.
RECENSIONI
Christopher Nolan sfida ancora un volta lo spettatore, sfida il tempo, ma rimane incastrato in un palindromo, dentro un Tenet. Con Christian Petzold, in Undine, il Mito, oggi, riemerge/affonda, muore/vive, si incarna e disincarna a Berlino, città sempre più votata a cancellare la Storia dal presente, come ha dichiarato il regista. Gianfranco Rosi, dopo un lungo periodo trascorso a Lampedusa, dopo Fuocoammare, gira tre anni muovendosi fra i confini di Siria, Iraq, Kurdistan e Libano, e il tempo del suo Notturno – inizialmente l’idea contemplava riprese solo di notte – diventa una bolla, una forma, una temporalità quasi neutra (Petzold invece ne fa un'increspatura, anzi un abisso). Un Sacro Medio Oriente magari, ma forse qui lo scarto più interessante – più problematico –, il paradosso più radicale e irrisolto, rispetto alle opere precedenti – e con l’eccezione di Fuocoammare, ma sarebbe troppo lungo discorrere di questo – è che il cinema non-lieu del regista rivela maggiormente la rimozione del luogo (inconscio d'autore? inconscio occidentale-collettivo?), proprio nel suo film più aperto, ossia geograficamente più esteso. In questa faglia tra rimozione e costruzione dello spazio come documentario "di finzione", tra i tre anni trascorsi nell’area e il montaggio – dunque la declinazione dello spazio nel tempo e viceversa – lo sguardo del regista non è sguardo critico, ma sguardo in crisi: eccessivo, straripante, troppo, per essere osservativo; troppo impotente per essere manipolativo. La collisione, allora, o forse la mediazione impossibile, il nodo inestricabile, è proprio tra luogo e non-luogo, tra sguardo e non-sguardo, tra immagini cinematograficamente lussuose e la narrazione di esistenze solcate da drammi, violenze, tragedie, esistenze di personaggi-sineddoche che non sono mai pienamente soggetto e mai pienamente oggetto. Convivono tutte queste dimensioni, qui, in un racconto monolitico ma stranamente molecolare, tra ridondanza e sfasamento. È un film ipercontrollato, ma per la prima volta, forse, si tratta anche di qualcosa che sfugge al suo autore, oscillante tra istinto e dominio. La Storia è una sintesi, quasi una sinossi, nel cartello d’avvio; il regista dà i nomi ai confini tra i Paesi ma di fatto produce un Medio Oriente deterritorializzato, quasi un'astrazione. Notturno (in concorso alla Mostra di Venezia 2020) è il film che scopre più visibilmente il cortocircuito tra il Rosi cineavventuriero individualista e il documentarista degli "ultimi", che siano dei dropouts nel deserto americano o ai margini del Grande Raccordo Anulare, ex sicari messicani in fuga, migranti disperati.«Sono rimasto lontano dalla linea del fronte – afferma Rosi nelle brevi note di regia – ma sono andato laddove le persone tentano di ricucire le loro esistenze. Nei luoghi in cui ho filmato giunge l'eco della guerra, se ne sente la presenza opprimente, quel peso tanto gravoso da impedire di proiettarsi nel futuro. Ho cercato di raccontare la quotidianità di chi vive lungo il confine che separa la vita dall'inferno». Ci si potrebbe chiedere cosa avrebbe fatto un Roberto Minervini magari, che prima del cinema voleva fare il reporter di guerra, regista che spesso viene accostato all’autore di Sacro GRA. E – sarà pure un azzardo ingenuo – viene poi in mente Paolo Sorrentino, che più volte ha menzionato Francesco Rosi tra i suoi riferimenti, ma forse non sa che è il cinema di un altro Rosi, Gianfranco, a essere oggi, potenzialmente, obliquamente, speculare, simmetrico al suo. Autori entrambi di forme che quasi travalicano le loro stesse opere. E se fosse allora la pura fiction ciò che manca davvero a Gianfranco Rosi?
In Notturno si riverberano storie e lingue sconosciute al regista, da un mondo, da mondi che dopo anni – afferma – oggi non è ancora in grado di comprendere. Un'anziana donna che torna nel carcere abbandonato dove tempo addietro è stato torturato e ucciso suo figlio; i pazienti di una clinica psichiatrica che diventano attori teatrali; una madre e le comunicazioni tramite messaggistica istantanea di sua figlia dalla prigionia Isis; un gruppo di guerrigliere peshmerga che si ripara dal freddo; un bracconiere che vaga tra la notte e il giorno; un adolescente e i suoi fratelli; un cantore di strada e Dio; i terroristi Daesh in carcere; i bambini che hanno visto l'orrore e lo disegnano con matite colorate su dei fogli attaccati a una parete. Ecco, non ci sono i cadaveri di Fuocoammare: la morte, questa volta, viene disegnata. È il momento più duro del film, ma è anche un lampo quasi, quasi un ritorno a El sicario - Room 164, alla ricostruzione del protagonista dei vent'anni trascorsi nel narcotraffico, alle figure ossessivamente delineate dal pennarello dell’uomo con tratto infantile, scolastico, sul quaderno, ad accompagnare il suo racconto. Notturno, «film di luce dai materiali oscuri della storia» come recita il pressbook, incastona le sue storie in una visione iperreale, sembra un documentario di fantascienza, l'opera di un paesaggista, di un fotografo arrivato da un altro pianeta. Ma (oppure “E”?), visto da qui, potrebbe trattarsi in fondo anche di un Medio Oriente-Tenet, potrebbe trattarsi di un rompicapo. O di un Medio Oriente-palindromo.