TRAMA
Los Angeles, comunità messicana di Echo Park. Magdalena si prepara alla tradizionale festa dei quindici anni, che segna il passaggio dall’adolescenza all’età adulta, ma la ragazza rimane incinta.
RECENSIONI
Richard Glatzer e Wash Westmoreland dichiarano di ispirarsi al Kitchen Sink drama dei tardi ‘50 e con il loro film, premio della giuria e del pubblico al Sundance 2006, di riproporlo su misura del nostro mondo crudele. Rieccoci al cinema indipendente americano, della cui degenerazione ho già parlato per Napoleon Dynamite, dunque non mi ripeterò. Sarà opportuno prescindere dal lato produttivo ma la storica rassegna di Redford, canale (quasi) unico per approdare in sala in questo Paese (“il film che ha vinto il Sundance”), da anni mescola le carte e getta puntualmente fumo negli occhi, un’abitudine - l’anno scorso il palloso Me and You - e insieme una regola con poche eccezioni (cfr. The Woodsman).
La ricetta, qui, la liquido facilmente: difficoltà delle classi lavoratrici, questione razziale, conflitto genitori/figli, omosessualità, religione. Lei è gravida ma sostiene la tesi della verginità davanti alla famiglia, è accolta dallo zio e dal fratello esule perché omosessuale, si rimbocca le maniche e pedalare. L’affresco etnico, che neanche il Loach più distratto, non regala però la minima fiducia al cervello dello spettatore; si ripassano infatti le tematiche di cui sopra, una alla volta, nell’atto di mettere i puntini sulle ipsilon con impegno missionario. Da questa piega sciagurata, i due registi sposano la crasi tra regia assente e messinscena evidente, troppo (il narcisismo della ricca coppia gay), montano nello zio Thomas la trappola del personaggio “simpatico” - che dunque simpatico non è - quindi lo uccidono, sprecano la prova corretta della protagonista Emily Rios, non curano la trama (la repentina riconciliazione padre/figlia) e urlano per un’ora a pieni polmoni. Il film, all’inizio a suo agio nella gabbia della placida medietà, presto capitola. Né può interessare la falsa incazzatura del marchio indipendente, ingombra di riprese minimaliste e bigiotteria sacra, dove l’unico, schietto tasto da pigiare - l’impossibile illibatezza della ragazza - resta inutilizzato. Confermando il valore profondo del riconoscimento festivaliero (ovvero, nulla), costringendo qualcuno alla svista pacchiana (si è detto realismo magico), l’opera è lontana dalla paventata indipendenza: dipende eccome, da vieti canovacci, dalla corsa alla lacrima, dai cineforum nelle scuole e dal messaggio a tutti i costi che, proprio perché obbligatorio, non potrà mai andare a segno. Ogni lode solo alla Teodora Film di Vieri Razzini la quale, dopo la bellissima iniziativa Cinque Pezzi Facili, continua a portare in sala l’oggetto particolare che, piaccia o no, accede così al sacrosanto diritto di una chance.