TRAMA
Dopo il crollo economico di una città aziendale nel Nevada rurale, Fern carica i bagagli nel suo furgone e si mette sulla strada alla ricerca di una vita al di fuori della società convenzionale, come una nomade dei tempi moderni.
RECENSIONI
Per molti Nomadland era un Leone d’Oro annunciato: produzione a stelle e strisce, girato da una donna – Chloé Zhao – per di più non bianca (è nata in Cina e si è trasferita successivamente negli USA). Se non fosse che l’incoronazione è avvenuta nell’edizione Covid della Mostra (e quindi già in eterno negli annali del cinema), è anche un Leone di cui forse ad un certo punto ci dimenticheremo. Più ci si riflette e più ci si sofferma sui dettagli, infatti, e più emergono i limiti del film: un prodotto di buona confezione, ottimamente interpreto da Frances McDormand (sempre un gigante di mestiere e intensità) ma anche un’operazione tutto sommato di scala ridotta, con qualche inciampo di ruffianeria e un uso fin troppo ingenuo della colonna sonora (le note di Ludovico Einaudi che ricamano costantemente attorno ad emozioni che non necessiterebbero altra sottolineatura). Ma dietro la patina un po’ leziosa da sequela di albe e tramonti stagliati contro incredibili paesaggi, si cela un film più libero e avventuroso di quello che possa inizialmente apparire. All’opera terza dopo Songs My Brothers Taught Me e The Rider, Zhao conferma di avere una sua idea di poetica e uno sguardo che non manca di precisione e puntualità. Uno sguardo sul mondo, o meglio, su un mondo – il West americano oggi – articolato attraverso motivi che lungo i suoi tre film già si configurano come temi ricorrenti. Primo fra tutti quello della casa: un paradiso perduto, un tesoro da riconquistare o – come in Nomadland – un fardello da perdere, una costruzione mentale da lasciarsi alle spalle, da reinventare, ri-concettualizzare. E se vogliamo vedere Nomadland come una sorta di neo-Western-minimal, ecco tornare alla ribalta anche la questione centrale della frontiera, reinterpretata alla luce di una lettura contemporanea e umanista, non banalmente intesa come paesaggio interiore, ma come riscoperta di sé i attraverso il territorio. C’è la scelta naturalistica di affidare sguardi, rughe e testimonianze ai veri protagonisti del nomadismo di oggi, chiamati a recitare nel ruolo di se stessi. Ma la libertà maggiore Zhao la esprime nella coerenza con cui il movimento narrativo del film esclude ogni tentazione di linearità o chiusura, scegliendo piuttosto di seguire lo stesso percorso circolare e senza meta dei suoi personaggi: si passa di campo in campo, si torna indietro verso dove si è venuti e poi si riparte, si raccogliere un’altra testimonianza, un altro rapporto umano su un percorso laterale, comunque avanti ma mai in linea retta. L’umanità, l’empatia, l’idea del mutuo soccorso fattuale o emotivo, l’elaborazione di un lutto avvenuto o a venire sono i capisaldi di una ricerca, di un’opzione di vita non allineata, una scelta idealistica contro le aspettative della società capitalista, celebrazione – ma non necessariamente santificazione – di un’alternativa e del coraggio e della consapevolezza che occorrono per perseguirla. È in questo senso che il film attinge ad un ulteriore livello di libertà, quello in cui si affranca dalle catene del film a tesi, di impegno sociale a tutti i costi, commentario che ci spieghi ancora una volta, o una volta per tutte, quanto sia feroce la recessione economica, quanto sia disumano il neoliberismo, peggio ancora negli Stati Uniti. Un cartello in testa al film e qualche punteggiatura durante la storia, la situazione socio-economico di riferimento è chiara, incombe alle spalle di tutto, ma viene tenuto volutamente in secondo piano. Questo non significa negarla, né semplificarla, né sottovalutarla. Significa semplicemente che l’interesse di Chloé Zhao è altrove – sceglie l’individuo e non il contesto, l’uomo (la donna) come vera frontiera da esplorare, celebrare, sostenere.
Sinfonia americana sigillata dalle musiche di Einaudi, garanzia d'acchiappo liricista ed evocazione di profondità d'animo, che è un attimo si stornino in ridondanza se pescate senza giusta misura. La parabola (ma è un falso movimento, finanche posticcio) è quella di Fern, in povertà dopo la crisi della Grande Recessione (la presumiamo, sui titoli di testa, ché non entra mai nel quadro narrativo, nel disagio sociale, nel contesto emotivo) e in composto lutto dopo la morte prematura del marito. La mano benefattrice di Amazon l'accoglie e ripara, una collega le suggerisce un'alternativa esistenziale: il nomadismo. Che non significa rinunciare a una casa, attenzione, bensì a un'abitazione: casa è dove è il cuore, e quello di Fern vien presto scaldato da una collettività unanimamente affine, affettuosa, conciliante. Non uno di meno, dal tenero reduce del Vietnam alla malata terminale. I legami tra autoctoni si edificano in un istante di default, ecumenico proprio come quelli col paesaggio rurale ritratto con velleità naturalistiche e vérité come i due scarni western d'oggi girati da Chloé Zhao (Songs My Brothers Taught Me e The Rider) prima di questa distribuzione Searchlight (alias Disney!) che le assicurerà un Oscar da record (è donna e POC, person of color) appena in tempo per sfoggiarlo nei trailer e nelle recensioni di The Eternals, Marvel nobilitante con medaglia diversity e queer (vedremo). Ma Nomadland, opera terza della regista cinese, tutto pare meno che un film d'autrice, anche su commissione: esteticamente indistinguibile dai road movie indie che passa il convento del Sundance da una decina d'anni a questa parte, imbellettato di anticonformismo solo via (brevi) slogan (i nomadi fanno una scelta "in opposizione alla dittatura del dollaro", ma di miseria, di dolore, di rabbia non v'è traccia: sia mai che fra un frame contemplativo e l'altro trapeli la politica), realistico solo perché Frances McDormand (grandiosa, ma sai che novità) ha problemi di stomaco e va di corpo in un catino. Però com'è bella l'America, com'è innocuo girarla, c'è facile innamorarsene, e come sono umani, ad Amazon, alla Disney.