Monografia

Nicolas Philibert

LO SPENDORE DEL VERO

A Cura di: Luca Pacilio

Il museo del Cinema di Torino, in collaborazione con l’Infinity Festival di Alba, dedica una retrospettiva a Nicolas Philibert (LO SPLENDORE DEL VERO). L’enorme successo del bellissimo ESSERE E AVERE ha finalmente reso giustizia alla produzione del francese e ci consente, oggi, di ripercorrerne una fetta sostanziosa. Difficile definire le sue opere, risultando evidente che quella di “documentario” è un’espressione da un lato di incompleta facilità, dall’altro di sbrigativa fuorvianza: trattasi, e questo va sottolineato prima di qualsiasi altro discorso relativo alla definizione del genere individuabile, di Cinema, Cinema in senso pieno, che, utilizzando in termini creativi elementi reali, non lasciandosi assoggettare da una mera e appiattente funzione didascalico-eruditiva, perviene a un risultato che ha dell’originale e dell’innovativo, qualcosa di più interessante di un prodotto didatticamente naturalistico e di più originale di una banale fiction. Le opere del regista, sempre impegnate nell’ambito di settori definiti –  veri e propri cosmi paralleli – sembrano primariamente interessate all’esposizione del loro peculiare sistema di segni e di gerghi, di codici o sovrastrutture più o meno funzionali: siano questi il linguaggio austero della classe padronale (LA VOIX DE SON MAITRE) o la comunicazione gestuale dei sordomuti (LE PAYS DES SOURDS), sia l’insieme dei segni museali e le interrelazioni tra le strutture e gli spazi espositivi (LA VILLE LOUVRE e UN ANIMAL, DES ANIMEAUX) o il complesso degli atteggiamenti, dei discorsi, delle condotte dei malati mentali di una casa di cura (LA MOINDRE DES CHOSES), di un gruppo di attori alle prese con uno spettacolo  (QUI SAIT?) o di una classe di bimbi e ragazzi seguiti dal proprio maestro (ETRE ET AVOIR). Di fronte a questi microuniversi Philibert non si limita certo alla pura illustrazione ma crea dei percorsi, mette in luce legami tra le varie strutture e si muove tra questi in un modo del tutto personale, assecondandone il lato emozionale e disinteressandosi di quello prettamente scientifico. Philibert, che rimane osservatore protagonista assecondando una visione molto impressionistica – ma mai violentatrice – dei fatti, tiene a sottolineare come, per ogni film che faccia, ha tutto l’interesse a partire da zero, a predisporre una nuova grammatica e una nuova ottica e non a caso ha parlato esplicitamente, a proposito dei suoi lavori, di “pericolo”: il pericolo è quello dell’imprevisto, della scoperta, della casualità dell’accadere. Ciò che sarà il film l’autore lo scopre man mano che lo gira e la pellicola, alla fine, risulta un prodotto sorprendente innanzi tutto per il suo artefice che ne comprende con precisione la sostanza e il soggetto solo una volta che l’abbia concluso. Posto ciò diviene difficile definire documentaristica l’opera di un regista che, mettendo da parte il “sapere”, fondamento tipico di quel tipo di produzione, preferisce abbracciare l’ignoto e l’incertezza: un cinema fragile e liberissimo, dunque, senza nessun vincolo nei confronti di ciò che va a scrutare, delle realtà nelle quali agisce (ad ogni livello) e nel quale Philibert riesce a mediare perfettamente tra il riguardo all’ambiente di riferimento e la sua completa libertà nel ritrarlo; i suoi film che non si pongono come fotocopie (inevitabilmente fallaci – l’oggettività non è del soggetto -) di una realtà ma come personali reinterpretazioni di essa, delle individuali riletture. Pellicole, dunque, che nascono dallo sguardo personale, dalla scelta ostentata di una prospettiva: cinema che narra senza essere convenzionalmente narrativo (alla fine dei film le didascalie parlano dei protagonisti come di “attori occasionali”), cinema che rappresenta senza farsi schiavizzare dai meccanismi consolidati della rappresentazione.