NEL PAESE DELLE CREATURE SELVAGGE

Titolo OriginaleWhere the Wild Things Are
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2009
Genere
  • 67203
Durata101'
Tratto dadal libro di Maurice Sendak
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Il piccolo Max ha un litigio furioso con la madre, la morde e scappa via, attraversando il mare su una barchetta, fino a un’isola popolata da enormi creature mostruose.

RECENSIONI

Il celebre libro illustrato di Maurice Sendak conta dieci frasi e, più o meno, quattrocento parole. Jonze, insieme con Dave Eggers (alla sua seconda sceneggiatura: l’altra, scritta con la moglie Vendela Vida, è Away We Go, per un film diretto da Sam Mendes ancora inedito in Italia), ne fa un lungometraggio di lunghezza decente, target incerto, ottima tecnica e deprimente sostanza. Il progetto è ambizioso (80 milioni di dollari ed effetti speciali selvaggi) e squaderna illustrissime credenziali di coolness (Jonze, Eggers e pure Karen O’ degli Yeah Yeah Yeahs). La sensazione finale, però, come scrive J. Hoberman sul Village Voice, è quella di aver assistito a una seduta di terapia di gruppo coi muppets.
Il plot è scarso, come dev’essere: un ragazzino con sorella maggiore distratta e madre single sfoga i suoi eccessi di rabbia con qualche selvaticheria di troppo; si rifugia in un mondo di mostri pelosi in cui viene incoronato re sulla parola: qui imparerà che governare gli eccessi altrui è una cosa complessa. Fine della parabola. A riempire le giunture c’è un grumo inquietante di convoluzioni emotive disturbanti, che sembrano capitate lì in mezzo per errore: rabbia, colpa, mancanza, gelosia, invidia, senso d’inferiorità, dolore. Soprattutto: l’ansia claustrofobica di una famiglia di pupazzoni mostruosi, metà teneri e metà spaventosi, legati da morbose relazioni disfunzionali. L’inquietudine sottile (e senza dubbio adulta) che popola il gruppetto di malinconiche Creature Selvagge sembra, dapprima, motivo d’interesse: importa poco se il film annoia, turba o spaventa i piccoli (probabilmente fa tutte e tre le cose): ma l’accostamento di una fuga fantastica infantile con le complicazioni psicosociali di una tribù di mostri tristi sembra inquietamente promettente. L’idea, però, gira a vuoto, senza mai farsi forza emotiva o drammatica, né mai andando, concettualmente e visivamente, al di là di un paio di occhioni melanconici e discorsi da introversi sull’orlo del baratro emozionale. Il mix reagisce male e ha scarsa energia (costruttiva o distruttiva che volesse essere). Jonze disegna molto bene l’aggressività sbrigliata di Max, il primitivo putiferio che sa di corse, violenza tribale, boschi e libertà: il prologo e l’incoronazione rendono in modo fresco e intelligente tutta la fisicità del wild rumpus di Re Max. S’incarta, invece, coi disordini emotivi dei Mostri. La noia sopraggiunge e anche i prodigi tecnici (pupazzoni più CGI) rimescolano un ritornello stiracchiato troppo a lungo e parecchio sonnacchioso. Dopo sette anni, dopo Essere John Malkovich e Adaptation, Jonze prova, da solo, a emulare la claustrofobia cerebrale di Kaufman. Ci riesce solo in minima parte, senza un decimo del genio del collega e in un contesto completamente scriteriato. Diamo a Charlie quel che è di Charlie, insomma. E passiamo oltre.

“Siamo andati davvero d’accordo: Spike, Maurice [Sendak] e io abbiamo sempre avuto gli stessi obiettivi per il film, e anche per la novelization [dal libro illustrato di Maurice Sendak e dalla sceneggiatura elaborata insieme a Spike Jonze, Eggers ha scritto un romanzo, intitolato The Wild Things], che erano quelli di ricostituire gli elementi pericolosi del libro. Poiché, quando uscì [nel 1963], fu piuttosto controverso e ad alcuni bibliotecari non piacque, e gli psicologi dell’infanzia pensarono che fosse di poco aiuto. Ed era davvero moralmente ambiguo in qualche modo. Mostrava un bambino che disobbediva alla madre e agiva da pazzo – cosa che fanno tutti i ragazzini, ma che tuttora non si vede molto nella letteratura per bambini. È troppo spesso, penso, ripulita” (Dave Eggers).

Scorribande domestiche, rimproveri a una staccionata, battaglie di neve, igloo abbattuti rovinosamente, camere da letto messe a soqquadro, letti a castello fortificati, proteste alimentari contro il mais surgelato, morsi lupeschi alla madre, fughe a perdifiato: tutto questo accade nei primi dieci minuti di Where the Wild Things Are, espansione filmica sceneggiata a quattro mani da Dave Eggers e Spike Jonze dell’omonimo libro illustrato di Maurice Sendak (poco più di trecento parole scandite da prodigiose tavole disegnate) e diretta dallo stesso Jonze. Poi la burrascosa traversata con la piccola barca a vela che sembrava aspettare proprio Max (Max Records, un dodicenne che dà la paga a intere generazioni di adulti) e l’arrivo nell’isola Where the Wild Things Are. Gli occhi di Max fanno da bussola all’intera vicenda, il suo sguardo genera la visione: le sue soggettive non sono soltanto espedienti retorici, ma autentiche creazioni immaginarie.
L’impulsivo Carol, il comprensivo Douglas, la bisbetica Judith, il remissivo Ira, il trascurato Alexander e la protettiva KK sono creature partorite dall’immaginazione di Max, che trasferisce in esse, ingigantendole, figure e aspetti psicologici della sua vita reale: se la sorella Claire e il suo ragazzo sono trasfigurati nella coppia Judith/Ira e KK riqualifica la madre, Max si divide nelle due creature antitetiche di Carol, emozione incontrollata che salta e devasta le capanne, e Alexander, vulnerabilità in cerca di attenzioni inappagate. Come sotto le pellicce delle wild things si muovono attori in carne e ossa (solo le facce delle creature sono state animate in CGI per renderle somiglianti a quelle del libro), così dietro alle creazioni immaginarie di Max si agitano, scomposte, le forze emotive che lo compongono come soggetto in fieri: un vero e proprio teatro mentale in cui mettersi in scena. Max si osserva attraverso il caleidoscopio della finzione.
Eppure, e questo è il quid sconcertante che strappa Nel paese delle creature selvagge alla dimensione del film per bambini, le figure create da Max non sono imprigionate nei loro ruoli allegorici, ma si affrancano dal dato psicologico iniziale per ribellarsi all’autorità sovrana. Carol passa dalla venerazione allo scetticismo e da questo alla fame di vendetta per ululare infine un sentimento di dolente tenerezza; Alexander accantona improvvisamente i toni piagnucolosi e recriminatori per rivolgersi schiettamente a Max e metterlo in guardia dall’eventuale scoperta della sua reale identità da parte di Carol; la burbera e pesante Judith lascia trapelare una struggente dolcezza alla sua partenza. È come se la mente di Max dimenticasse le regole di scomposizione precedentemente applicate e lasciasse piena autonomia alle creature, ponendole progressivamente sul suo stesso piano. In questa evoluzione non priva di risvolti minacciosi, il film degenera: le creazioni immaginarie di Max sono sì allegorie di sentimenti e forze psicologiche elementari, ma animate da una vivacità e un'imprevedibilità assolutamente inusitate.
Molto meno pasticciato del precedente Adaptation e molto meno cerebrale dello splendido Being John Malkovich, Nel paese delle creature selvagge è una pellicola inclassificabile per genere (Coming-of-Age? Fantasy? Apologo surreale? Adventure?) e spartito narrativo (tempi laschi, andatura irregolare, plot sbrindellato) che pospone la compattezza del racconto alle tensioni emotive che lo abitano. Non mancano le sequenze di giubilatorio putiferio (il wild rumpus scatenato da Max subito dopo la sua incoronazione, la furiosa battaglia di zolle tra i buoni e i cattivi) e di preoccupante agitazione (la devastazione delle capanne, il parapiglia che costa un braccio all’imbelle Douglas), ma ad avvolgere il tutto è una serpeggiante atmosfera di malinconia e aggressività (gli elementi pericolosi accennati da Eggers) che dà al film una tonalità affatto singolare, in bilico tra irruenza infantile e malizia adulta, senza che una prevalga sull’altra.
Una singolarità esaltata dalla mercuriale camera a mano di Spike Jonze, dalla fotografia umorale del fido Lance Acord e dal commento musicale di toccante varietà firmato da Carter Burwell e Karen O & The Kids (All Is Love e Hideaway i brani più suggestivi). Girato per lo più in Australia (nei dintorni di Melbourne) e prodotto dalla Warner Bros (80 milioni di dollari e una gestazione lunga e travagliata), Where the Wild Things Are fa infine della contraddittorietà il proprio nucleo tematico (il bisogno di istituire un'autorità sovrana per poi metterla in discussione e distruggerla), sgretolando intimamente i conati di megalomania nella m(od)esta accettazione di una dolce dipendenza: nessuna crescita catartica ed esaltante, giusto riconoscersi nel proprio nome. Dritto al cuore.