Commedia, Drammatico, Raiplay, Recensione

NATALE IN CASA CUPIELLO

NazioneItalia
Anno Produzione2020
Trattodall'omonima commedia di Eduardo De Filippo
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Napoli, 1950. Il giorno di Natale è vicino e, come ogni anno, Luca Cupiello prepara il presepe. Ma, in famiglia, a nessuno interessa. Tra i preparativi del pranzo natalizio, l’indolenza di suo figlio Tommasino e la crisi del matrimonio di sua figlia, in casa Cupiello il destino sta per giocare un brutto scherzo a Luca.

RECENSIONI

Sacrilegio!

Dopo alcune recite in diretta (eravamo negli anni Cinquanta), Eduardo, negli anni Sessanta, ebbe l’intuizione di registrare le sue opere per la televisione. Questa pratica, che si protrasse anche nel decennio successivo, ha fatto sì che un catalogo filmato delle sue messe in scena maggiori - caso pressoché unico al mondo per un drammaturgo di fama - sia oggi a disposizione: consultabile, visionabile. Ed eternato in una forma che, anche suo malgrado, è diventata canone, arrivando a inchiodare anche successivi allestimenti di altri registi. Persino i due spettacoli londinesi degli anni 70, con la regia di Franco Zeffirelli, al National Theatre (Sabato, domenica e lunedì, con Laurence Olivier e Joan Plowright, e Filumena Marturano, ancora Plowright) andarono in scena sotto lo sguardo vigile del drammaturgo. Del resto come non ricordare Harold Pinter che, nel 1973, si infuria con Luchino Visconti per il suo allestimento di Old Times con Adriana Asti e Umberto Orsini e adisce vie legali per fermare le rappresentazioni? Era lo stesso Pinter che, per la sua memorabile regia italiana di Ceneri alle ceneri, chiamò, nel 1997, proprio Adriana Asti. Perché, della regia viscontiana che gli «aveva fatto orrore», era ciò che più aveva apprezzato.
Gli autori sono così. Maniaci del controllo. E forse anche Eduardo lo era, tanto che, anche dopo la sua morte, la concessione dei diritti per le rappresentazioni delle sue opere è stata frutto di attenti vagli. Dico forse. Perché altrimenti dovrei inventarmi al volo una giustificazione per una cosa come questa:
«Piezzo de carugnone! Sulo si le fa còmmodo allora isso dà ll’ordine, e sulo tanno arrivano… E allora so’ carocchie, so’ scoppole, so’ cauce, pizzeche a maliun...».
Questo è Calibano che parla di Prospero nella traduzione napoletana di La tempesta di Shakespeare. A firma Eduardo De Filippo. Lo faccio presente, dato che in queste ore, per il (bellissimo) film di De Angelis è tutto un risuonar di “sacrilegio!” e “profanazione!” a ogni refresh di pagina web. Eduardo non si è fatto alcuno scrupolo di entrare nei classici e rivoltarli a piacimento. E io ci scommetto: si rallegrerebbe se qualcuno decidesse di tradurre Natale in casa Cupiello in gaelico o in dialetto friulano o lo ambientasse in un villaggio africano. Perché questo accade alle opere di valore universale: parlano a ogni epoca, in qualsiasi lingua, con qualsiasi mezzo.

Inviolabilità tacita della versione televisiva

Per questo, e lo scrivevo nella recensione, è stato molto importante il film che Mario Martone ha tratto da Il sindaco del rione Sanità. Perché, come lo spettacolo dello stesso Martone da cui il film prendeva le mosse, proponeva un'idea altra del dramma: era una rilettura che ne sottolineava la classicità proprio facendolo oggetto di rivisitazione, lettura alternativa, stravolgimento.
Ma Il sindaco non è Natale, lavoro cristallizzato nella versione televisiva del 1977 (a colori - ce n’è un’altra in bianco e nero del 1962 -): notissima, istituzionalizzata quasi (la RAI la rimandava ogni Natale, come oggi Italia Uno fa con Una poltrona per due). Non è un caso se questa, che è l’opera più famosa dell’autore, non sia mai stata fatta oggetto di riduzione cinematografica: c’era sempre aria di profanazione (anzi ”profanazione!”). I tempi, insomma, non sembravano mai maturi.
In questo senso un prodromo importante di questo film (casuale, non sussistendo di fatto alcun collegamento) è l’allestimento meraviglioso (e contestato da tanto pubblico, ça va sans dire) che Antonio Latella propose sulle scene nel 2014: in quella occasione il regista - in quel percorso che è oramai suo, di ridefinizione, destrutturazione e rimeditazione del teatro classico - partiva proprio dalla conoscenza diffusa della commedia, dandola quasi per scontata, per farne ricostruzione epica per immagini e segni, posta una lettura quasi brechtiana del primo atto. Ne scaturivano interpretazioni sorprendenti: scavando nel sottotesto, se ne rivelavano inaspettati, possibili significati. E si consegnava agli annali uno dei finali più potenti e visionari del recente teatro italiano.

Lucarie’... scétate so’ ‘e nove...

Natale in casa Cupiello è dramma in cui De Filippo affronta ancora una volta la famiglia come cellula significativa di una società la cui base patriarcale entrava in crisi (Concetta a volte usa il “voi” per rivolgersi al marito, ma solo come sfottò, quasi a ridicolizzarlo nel ruolo di capofamiglia; Tommaso, disprezzando il presepio, rifiuta un’istituzione e chi se ne fa portavoce; Ninuccia sta per attentare alle certezze paterne, abbandonando il ricco consorte): è un nucleo emblematico che va a sgretolarsi. La rappresentazione di questa dissoluzione viene giocata nel contrasto con l’atmosfera natalizia: la famiglia riunita, le tradizioni ravvivate, i simboli in evidenza. Ma non c’è colla da scaldare che possa tenere unito questo presepio…
Nato come atto unico (quello che divenne il secondo: Eduardo lo recitò a teatro con la sorella Titina, nella parte di Concetta, e il fratello Peppino che, nel ruolo del figlio, rivendicò fino all’ultimo la paternità della battuta più nota del dramma, «Nun me piace ‘o presebbio»), col tempo è stato ampliato fino alla struttura in tre atti. Ma anche quest’ultima è stata oggetto costante di riscrittura e rimaneggiamenti. Visibili, peraltro, basti confrontare la lettura del testo (quello della raccolta La cantata dei giorni pari e la successiva rimaneggiata del 1979) con le differenti versioni televisive del 1962 e del 1977. Piccole e grandi variazioni, modifiche, aggiunte, espunzioni, a volte decisive (sul primo testo, come nella versione del 1962, il destino del protagonista rimane vago, con una certa nota di ottimismo, laddove l’ultima versione, quella in video del 1977, sancisce la morte certa di Lucariello). De Angelis e il cosceneggiatore Massimo Gaudioso le attraversano, raccogliendone elementi e traendone un’ulteriore. Di più: sulla base di una conoscenza approfondita dell'intera opera di Eduardo aggiungono dettagli e scene (in particolare all’inizio e nelle due cesure tra i tre atti) coerenti con lo stile, la scrittura e lo spirito di Eduardo: ceselli di una sottigliezza e di una coerenza tali da renderli praticamente indistinti dal corpo originale del dramma (un esempio: il riferimento alle foto che Tommasino ha mandato a Cinecittà, passaggio assente nel dramma, mi pare rimandare a Mia famiglia).
Il tutto nel rispetto di quella varietà di toni che è tipica del teatro di De Filippo: commedia, farsa, tragedia si amalgamano, convivono, si alternano. In questo senso proprio la figura di Nennillo è esemplare: nel primo atto farsesca (fino alla maschera, un estremo che non raggiunge nessun altro personaggio), comica nel secondo, drammatica nel terzo.

Cinema in casa Cupiello

Edoardo De Angelis non solo non arretra di fronte al totem, dunque, ci entra dentro e, rispettandolo, lo interpreta e ne dà una personale lettura. Che è cinematografica in primis, come testimoniano alcune chiare scelte di campo.
Il pianosequenza iniziale, che pedina Concetta che rientra in casa, ad esempio, non solo ci dà la dimensione temporale nella quale la commedia si muove (non siamo negli anni 30, ma in un’Italia post-bellica che cerca di rialzarsi: sulle scale un soldato americano con una prostituta), ma è un dichiarato, programmatico gesto cinematografico, a scartare la dimensione teatrale, a segnarne la distanza. Siamo in un film, siamo in un’altra dimensione rappresentativa.
Poi Sergio Castellitto: Lucariello è affidato a un attore non partenopeo, un evidente anti-Eduardo. Perché De Angelis lo sa che un nuovo mood è possibile solo affrancandosi dal fraseggio di De Filippo, che rifarlo o tentare di imitarlo sarebbe stato un errore da matita blu. Con Castellitto, dunque, si inventa un Cupiello accalorato e tagliente, nello stesso tempo chiaro e imperscrutabile (non dimentichiamoci che Luca è allo stesso tempo parte in causa e testimone ignaro di quanto avviene in scena: in una certa misura rappresenta anche lo sguardo vergine dello spettatore). Il dialetto meno marcato del film è il suo, altro modo per sottolineare l’essere l’uomo un mondo a parte rispetto al resto della famiglia, il suo vivere in un’altra dimensione. Castellitto è il frutto di una decisione forte, perché coscientemente rivoluzionaria in un cast per altri versi aderente a quella tradizione di cui la comprimaria Marina Confalone, da attrice della compagnia di Eduardo quale è stata, è depositaria e garante.
Il risultato è, dal punto di vista recitativo, affascinante: il Lucariello di Castellitto ha una svagatezza originale e una ingenuità macchiata di coscienza. E momenti di vera trance: l’esaltata, quasi dissociata descrizione del presepio; il passaggio topico della congiunzione dei due amanti sul letto di morte, in bilico tra nebulosa confusione e lucidità preveggente.
Ancora: De Angelis ridisegna la geografia dei rapporti tra i membri della famiglia, mettendo in evidenza, ad esempio, che la passione tra i coniugi non è affatto spenta (attraverso piccoli gesti, sguardi, finezze: probabilmente la notte farebbero sesso se non fossero costretti a dividere la stanza con il figlio, sfrattato dalla sua perché occupata dallo zio). O suggerendo un’intesa tra fratello e sorella (quello scappellotto di Ninuccia e il sorriso di rimando di Tommasino, quella sigaretta condivisa) che adombra una complicità che è facile leggere anche in termini di conflitto generazionale: in fondo Ninuccia è infelice perché si è dovuta piegare al diktat genitoriale (e sociale) che le imponeva di non rifiutare una proposta matrimoniale vantaggiosa; in fondo l’indolenza e il disadattamento di Tommasino sono il risultato della contraddittoria condotta di madre e padre. 

«Venite, visitate visitate»

«E quella è l’acquafrescaia che disseta il viandante»


Ma, soprattutto, il film e De Angelis mostrano e spiegano il presepe di Cupiello, che è il fondamento dell’intero dramma, un’immagine simbolo che viene esplorata dall’occhio della camera: un avvicinamento impossibile a teatro. E che Cupiello, descrivendo, svela come momento cruciale per comprendere che è la famiglia che lui immagina a rispecchiarsi in quella costruzione. E forse è per questo che a Nennillo il presepio non piace. E quell'abbraccio generale, sul letto, preludendo alla morte di Luca, cristallizza la "sacra famiglia" prima della sua dissoluzione. Prima che il presepio venga smontato.
La descrizione comincia, infatti, con
Benino, che è il pastore dormiente che la tradizione napoletana pone all’apice della scena: è il primo personaggio che lo sguardo incontra e che, si dice, sogna lo stesso presepe di cui è parte, come se l’intero scenario fosse originato dalla sua mente. È insomma Cupiello (che non a caso all’inizio del dramma dorme), perso nella sua illusione, nel suo sogno (così come l’ubriaco - il rosolio che non c’è mai… - è Concetta). Una figura che, nato il bambino, diventa il pastore della meraviglia, con la bocca aperta in adorazione della nascita. De Angelis, facendo spiegare al protagonista il duplice ruolo del pastore Benino, suggerisce un Lucariello non così cristallizzato nell’idea utopistica dell’immobilità delle figure nella rappresentazione del presepe, ma illuminato anche dalla coscienza che i vivi si muovono, cambiano posizione, non sono imprigionati al loro ruolo (Ninuccia, in primis). Per questo fa virare il dramma verso una conclusione precisa, diradando l’ambiguità eduardiana circa la consapevolezza di Luca sull’identità di Vittorio.
Spieghiamoci. Alla fine del dramma Lucariello, in preda al suo malessere, crede che Vittorio - l’amante della figlia sopravvenuto al capezzale del morente per chiedere perdono - sia Nicolino, il marito di Ninuccia. E sulla base di questo equivoco congiunge le mani dei due giovani. Ma la scena è ambigua, come la frase «Voi siete nati l’una per l’altro». De Angelis anche in questo caso fa una scelta precisa: opta per un Luca cosciente di benedire la nuova unione. Opta insomma per un Luca Cupiello consapevole del fatto che la vita non è un presepe, che nella realtà i pastori vogliono cambiare posizione. E aggiunge una battuta al testo, perché questo schieramento sia chiaro: «Però vi dovete amare, sennò m’ mett’ scuorn ‘ e murì» altrimenti la mia morte diventa inutile, insomma. Cioè: se fate questa scelta di libertà in nome dell'amore, dovete amarvi davvero. Se Ninuccia in nome della libertà distrugge tutto, quell’atto deve essere d'amore vero, non un capriccio.
De Angelis insomma affronta Eduardo in termini di eredità, prima ancora che di tradizione, e mette in scena senza complessi un testo che - imbalsamato nell’ortodossia “eduardesca” sancita dalle riduzioni televisive - quasi non si prestava più a essere scandagliato, analizzato, letto, ma solo rappresentato, replicato, recitato (dal pubblico anche) come una preghiera di cui ci si è dimenticati il senso [1]. Dimostra che Natale in casa Cupiello è un testo vivo, aperto, uno scrigno che, una volta dischiuso, rivela nuove gemme e che, proprio per questo, è un classico che, in ogni tempo, trova sfumature e letture nuove e diversificate.
Di più: annette Natale in casa Cupiello alla contemporaneità con i mezzi più immediati (cinema, televisione, web), assumendosene l’onere e la responsabilità e, rendendosi bersaglio esposto, lo consegna a nuove generazioni che mai si sarebbero avvicinate all’opera. Anche per questo coraggio, e non solo per l’esito felicissimo del film, questo presepe ci è piaciuto.

[1] Un esempio: guardando il film mi sono riposto la domanda sulla condizione sociale della famiglia Cupiello. Ci troviamo sicuramente nell’ambito di un nucleo che ha difficoltà economiche (il denaro ricorre ossessivamente nei discorsi familiari), ma il testo e la messa in scena sembrano dirci che i Cupiello (come la loro casa - che porta ancora tutti i segni della guerra -), non possono considerarsi poveri. Mi rifaccio alla commedia: nella didascalia introduttiva del secondo atto si parla di “salotto borghese”. Lo faccio presente al regista.
Edoardo De Angelis: «In effetti De Filippo è il massimo autore di un certo teatro borghese, ma non dobbiamo fare l'errore di considerare questo termine con il metro del giudizio di oggi. Ho collocato la commedia negli anni 50, epoca in cui Napoli viveva ancora le ferite della guerra, ma in cui già si intravedevano le tracce della nascita di un ceto medio che di lì a qualche anno, con l'arrivo di Achille Lauro a Napoli, si sarebbe sviluppato. È una sorta di pre-borghesia quella dei Cupiello, una famiglia che vive in ristrettezze economiche ma non può essere collocata nel ceto povero e che vede nel matrimonio di Ninuccia un'opportunità di salto sociale. Idea di sistemazione che, tra l'altro, è comune tanto alle famiglie povere che a quelle borghesi».
Questo intervento è parte di una conversazione avuta col regista e confluita nell’intervista pubblicata su Film Tv n.50/2020.