Musicale

NASHVILLE

TRAMA

Storie di varia umanità si intrecciano durante la manifestazione canora organizzata da un candidato populista. Finirà in tragedia. La gente, comunque, continuerà a cantare “Don’t Worry Me” (io non me la prendo).

RECENSIONI

Scritto in collaborazione con Joan Tewkesbury e con gli stessi attori (spinti ad inventare loro stessi battute per i loro personaggi), Nashville è il capolavoro di Robert Altman ed uno dei film chiave degli anni 70. E' un caleidoscopico musical in cui un'umanità alla deriva in fuga dalla depressione quotidiana trova rifugio in un fittizio paradiso country governato da un politicante abile manipolatore in piena campagna elettorale. Sono personaggi eterogenei, spesso tragicamente commoventi, spesso riprovevoli, "sanamente folli" o "falsamente savi", spesso genuinamente "easy" (come quello, straordinario, interpretato dall'altmaniano Keith Carradine che, in una della più belle sequenze del film, palesa la sua indole cantando la splendida, "oscarizzata" "I'm easy" e seduce così, contemporaneamente, quattro donne egualmente ingenue e "facili"). Una realtà così caotica poteva trovare la giusta rappresentazione solo in una struttura narrativa aperta e tale è la scelta di Altman che nega così ogni linearità classicamente hollywoodiana, ogni binarismo risaputo (protagonista/antagonista) ed inaugura una forma corale di cui rimarrà il maestro indiscusso (fino ad "America oggi" ed oltre) e che sarà oggetto di numerosi tentativi di imitazione (si pensi a Paul Thomas Anderson ed al suo notevole Magnolia). Il caos esistenziale è anche caos sonoro (registrato su 24 piste diverse) e visivo (grazie al sapiente uso del cinemascope, Altman è in grado di far convergere nella medesima inquadratura due o tre situazioni differenti). I "topoi" dell'americanità ci sono tutti e tutti sono oggetto di una analisi tanto acuta quanto indifferente ai colori di partito o alle pseudoideologie (dietro le quali si nasconde solo una smisurata brama di potere). L'occhio altmaniano mette a nudo tutto mostrandolo oggettivamente, senza filtri idealizzanti. Il cast è straordinario e colonna sonora da urlo. Lo spirito americano, nel bene e nel male, è tutto in quella canzone intonata subito dopo la tragedia: "don't worry me", (me ne frego). L'America di ieri è anche quella di oggi.

L’opera corale più rappresentativa, insieme M*A*S*H, della poetica altmaniana, un mosaico al contempo leggero e allegoricamente feroce: la “sua” Nashville diventa il cuore e lo specchio di tutta l’America, un luogo dove, di solito, i futuri presidenti vincono le elezioni, dove il falso perbenismo americano (i testi tutti “casa e chiesa” delle canzoni) e gli eccessi kitsch dell’opulenza consumistica vanno a braccetto. Altman, però, non forza i concetti, lascia che il rappresentato parli da sé moltiplicando, così, le suggestioni fino ad una contraddittorietà paradossalmente coerente, immagine riflessa di un amore/odio del regista verso il proprio paese, una nazione grottesca, frantumata in tante vignette colorate come il suo cinema, magistralmente geometrico e lucido, spesso affidato al montaggio parallelo. Le canzoni, quasi tutte scritte dagli attori stessi (la bellissima “I’m easy” di Keith Carradine ha vinto l’Oscar), sono “ruoli parlanti” che aprono e chiudono la pellicola fra un “Se ci siamo da 200 anni qualcosa di buono dobbiamo avere” e un “Puoi dire che non sono libero, ma non m’importa”, che suona tanto come amaro inno alla frivolezza. I 24 personaggi, ripresi in diretta con un sistema di registrazione a 16 piste inventato da Altman, vanno dal latin lover di Carradine al militare fan di Scott Glenn, dalla ninfomane californiana di Shelley Duvall alla cronista d’assalto di Geraldine Chaplin, dall’Easy Rider di Jeff Goldblum a Elliott Gould e Julie Christie nel ruolo di se stessi: tutti e tutto sono simboli, “parodie” che, in stile libero da finto-reportage, fanno uno sberleffo ai miti e alle contraddizioni statunitensi, dal “sogno” alla febbre del successo, dall’industria dello spettacolo al pubblico addomesticato, dalla cultura di massa (spesso) ridicola nelle sue esternazioni al caos stravagante della vita moderna, dalla sporca politica alla bellicosità esasperata dalla licenza d’armi per tutti: politici e personaggi pubblici cadono come mosche sotto i colpi di folli in esaurimento nervoso (bellissimo il montaggio finale dell’assassino che esplode di rabbia vedendo, in sequenza, la bandiera, la star del country che beatifica i legami familiari e lo striscione politico dietro di lei: sintomatico, anche, che l’arma mortale venga equivocata per uno strumento musicale). Un affresco “aperto” ma a tesi, ricco di spunti e ambiguità, anche troppo fuorvianti (la figura del killer, eroe contro le brutture e, insieme, folle vittima di falsi dei; le canzoni ridicole e al contempo genuine; il candidato politico come alternativa all’obsoleto è figlio di un sistema irrimediabilmente corrotto).