TRAMA
Due detective indagano su di un omicidio il cui principale sospetto è un uomo che, da quando è tornato dal Perù, si comporta in modo strano. La fidanzata e il regista teatrale per cui interpretava una tragedia greca provano a raccontarne il carattere.
RECENSIONI
Ispirato ad un episodio di cronaca nera, My son, my son, what have ye done? segna l’incontro artistico di Herzog e David Lynch, qui produttore esecutivo. L’autore di Fitzcarraldo teatralizza il “fatto” non solo esplicitando la terribile affinità tra il mito antico e la follia del tempo presente, ma insistendo sul carattere finzionale dell’operazione che conduce. Di estrema complessità, pur nella sua evidenza, My son trasforma un caso di violenza come tanti nella destabilizzante parabola di un idiota si rassegna alla violenza come paradossale atto d’amore verso l’umanità tutta, questo al fine (un folle fine, evidentemente) di rinverdire nella contemporaneità una Tragedia che la Storia ha riprodotto su scale minori (piccole violenze familiari) o maggiori (i grandi eventi) deprivandola della purezza e dell’aura del Mito. Herzog gioca smaccatamente su più livelli: “realtà” e sua messa in scena, vita e teatro, violenza e sua rappresentazione/sublimazione. Esplicita, per certi versi, il modus operandi che presiede ad ogni riconfigurazione narrativa di fatti realmente accaduti: una sorta di grande compromesso tra realtà (il dato fenomenico: un matricidio) e saperi ristrutturati e ristrutturanti (Oreste, certo, ma anche Dostoevskij). Il luogo del crimine diventa di conseguenza una macroscena teatrale en plein air composta di due spazi: la casa del colpevole, inaccessibile come il palcoscenico, e la strada prospiciente la dimora, dove si annidano gli agenti di polizia e gli “spettatori”. L’unità di tempo e di luogo è inframmezzata da piu’ o meno lunghi flashback che invertono la funzione normalmente loro attribuita: lungi dall’essere esplicativi, complessificano, “mitizzano” e congelano (i numerosi tableaux vivants) gli eventi e gli agenti. Più che per un insieme compatto e piano, dunque, My son illumina per la sequela di intuizioni che inanella, pagine-senquenza dal carattere aforismatico ove ogni singolo tassello porta con sé una straordinaria invenzione visiva (il tunnel dove il tempo è sospeso, il barattolo di avena che rotola etc.) che ospita e iconizza, grazie ad una sorta di miracoloso isomorfismo tra quadro e testo, una massima del nostro eroe (la lacrima che cade da un solo occhio), esattamente come il barocchismo e la grandeur del movimento di macchina di 360º attorno al furioso Aguirre “avvolgevano” e per certi versi “significavano” il suo Ego straripante, aggirabile ma impenetrabile. Molti critici hanno storto il naso, considerando l’operazione nei termini di un grande scherzo architettato attorno ad un tavolo da due amici e complici intenti a rendere omaggio ai rispettivi immaginari filmici. Puo’ anche essere...So What?
Un poliziesco straniato, alla Herzog, dove l’autore si riunisce a gran parte del cast tecnico di Il Cattivo Tenente - Ultima Chiamata New Orleans e trova David Lynch come produttore esecutivo: musiche che non sono mai un semplice sottofondo (quasi un’improvvisazione cacofonica che restituisce l’inquietudine), segnali enigmatici a specchio del protagonista, luoghi alieni (la villa rosa con fenicotteri ripresa a lungo, con lento carrello laterale, dal suo giardino di cactus), il parallelo con l’Oreste matricida, il misticismo della voce interiore (Dio?), i vari gesti nonsense del “sospetto”. Eppure non funziona del tutto perché, prendendo spunto da un fatto di cronaca nera, non riesce ad astrarsene talmente per un discorso “altro”: da un lato è sin troppo evidente “la realtà” di ciò che sta accadendo, in fondo poca cosa (storia di ordinaria follia dove è poco intrigante trovare un senso a tutte le allucinazioni di chi ha commesso il crimine), dall’altro Herzog non riesce a donare, come vorrebbe, un’altra dimensione interpretativa o anche solo evocativa a questa realtà, dove i nonsense restano nonsense, con esili agganci (la tragedia greca) al qui-ed-ora. In questo contesto che non diventa onirico e non resta, volutamente, nella realtà, stonano anche certi atti brechtiani dove Herzog ritrae gli interpreti muti (fissando o meno la macchina da presa): qualcuno ne regge lo sguardo, qualcun altro, Michael Shannon in primis, cede rovinosamente e in questo ruolo/non-ruolo non entra mai.