Drammatico, Processuale, Recensione

MUSIC BOX

TRAMA

Anne Talbot, avvocato di Chicago, difende il padre di origini ungheresi, cui stanno per togliere la cittadinanza perché accusato di crimini di guerra. Il genitore afferma che si tratta di uno scambio d’identità, e Anne gli crede.

RECENSIONI

Al terzo film americano, Costa-Gravas s’affida ancora, dopo Betrayed, alla penna di Joe Eszterhas, la cui traccia autobiografica trasforma il potenziale sensazionalismo in dirompente atto terapeutico: il quesito allarmante, da thriller umanistico e rompicapo giudiziario, è se conosciamo a fondo i nostri genitori. Eszterhas, però, non si limita a prendere spunto da un caso di cronaca (quello di John Demjanjuk) ma s’ispira anche al proprio rapporto con il padre ungherese, che solo in seguito scoperse coinvolto nelle campagne antisemite. La realizzazione di Costa-Gravas è impeccabile, con una direzione sensibile e sagace nel tenere le fila delle sottigliezze nelle recitazioni, dei collegamenti nell’impalcatura della sceneggiatura, della sapidità dei dialoghi. Il dramma processuale è appassionante in quanto, e al contempo, emozionante nei realistici moti umani descritti, doloroso nel dubbio iniettato ed illuminante nei colpi di scena esternati dopo aver tenuto in piedi, cosa non facile, l’impenetrabilità del mistero fino alla fine (fondamentale la prova di Armin Mueller-Stahl). Sullo sfondo, a lato e, infine, a gamba tesa, entrano gli orrori della Storia, strazianti nel momento in cui incidono nella sfera privata (la music box, da carillon, è quella che deve risuonare per mantenere viva la memoria): la potenza della materia è quella che permette, anche, di andare oltre le ponderazioni non qualunquistiche sul nazismo, per riflettere su come rapportarsi con le colpe dei padri che vengono ereditate. Il racconto è di grande impatto anche nella parte rivelatrice, girata sotto il Ponte delle Catene a Budapest. Poco amato dalla critica, il film ha vinto l’Orso d’Oro a Berlino.