Drammatico

MUNICH

Titolo OriginaleMunich
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2005
Durata164'
Tratto dada
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

All’indomani della strage di Monaco del 1972, il governo israeliano incarica un giovane agente del Mossad di guidare una rappresaglia mirata col fine di eliminare i presunti responsabili.

RECENSIONI

"La comunicazione interculturale sarà possibile solo se in precedenza il Soggetto è riuscito a svincolarsi dalla comunità. L'Altro potrà essere riconosciuto come tale soltanto se viene compreso, accettato e amato in quanto Soggetto, cioè come elemento attivo di mediazione, nell'unità di una vita e di un progetto di vita, fra un'azione strumentale e un'identità culturale che va sempre liberata da forme storicamente determinate di organizzazione sociale. Il riconoscimento dell'Altro è possibile unicamente a partire dall'affermazione di ciascuno del proprio diritto a essere Soggetto. Parallelamente, il Soggetto non può affermarsi come tale senza riconoscere l'Altro in quanto Soggetto, e anzitutto senza liberarsi dalla paura dell'Altro, che porta alla sua esclusione. "Non c'è paura più grande, sostiene Peter Brook, di quella di aprirsi all'altro, ed essa costituisce l'alveo tanto dell'estrema destra quanto del terrorismo" ("Le Monde", 14 settembre 1996)

ALAIN TOURAINE, "Libertà, uguaglianza, diversità. Si può vivere insieme?", Il Saggiatore, Milano 1998, pp. 183-84

Tratto dal romanzo di Gorge Jonas Vengeance: The True Story of an Israeli Counter-Terrorist Team, rimandato e riscritto più volte fino a cadere nelle mani del geniale Tony Kushner, premio Pulitzer per Angels in America, l’ultimo lavoro di Spielberg è un pugno allo stomaco assestato con geometrica precisione, un apologo morale che parte dalla Storia particolare, specifica per innalzarsi fin da subito a riflessione universale sul rapporto tra soggettività e Stato, tra responsabilità individuale (l’uomo) e collettiva (il popolo). Il regista e lo sceneggiatore mantengono un equilibrio prodigioso dando voce alle opposte parti di un dialogo impossibile, cogliendo i personaggi in conflitto non già come figure di cartapesta incarnanti visioni “di stato” antitetiche, bensì uomini fragili, prima marionette mosse dalla madrepatria, poi esseri umani fagocitati dal dubbio. Il racconto, retto da una tensione quasi insostenibile, si dipana in mezza Europa, ma nonostante la dispersione non diviene mai dispersivo. Il regista riesce mirabilmente, grazie alle scelte cromatiche adottate dal grande direttore della fotografia Janusz Kaminski, a suggerire la localizzazione dell’azione senza ricorrere alla didascalia spaziale o temporale (cosa rarissima nel cinema di spionaggio). Avner (Eric Bana), il protagonista, è anima smarrita e schiacciata da un potere sempre più invisibile, sempre più sfuggente, fantasma senza patria, patria che da madre benevola – “E’ Israele tua madre” gli dice la moglie – si tramuta in matrigna da cui fuggire, proprio perché non più “casa”. Per questo, abbandona l’arida “terra promessa”, alla ricerca di un nuovo nidus da ricostruire in un altrove nel quale sperare (vanamente) di potersi riparare da una violenza tentacolare, ramificata (come ricorda il “papà” Michael Lonsdale, il primo personaggio pienamente “opaco” del cinema di Spielberg, figura tra le più ambigue e sconvolgenti del cinema americano recente). E’ la fine dei sogni, è la maturazione graduale di un bambinone ingenuo e senza memoria (un “sabraA”, ovvero un ebreo d’Israele, figlio dello stato e non nella/della diaspora), alla ricerca inconscia di ricostituire una comunità su una terra non macchiata dal sangue. Cresciuto in un Kibbutz, dunque in una comune, ha appreso l’arte culinaria, nonostante le mani “da macellaio”. Il pasto è sempre abbondante perché collettivo. La tavola è sempre imbandita e ricca di pietanze cucinate istericamente da chi cerca di annullarsi nell’unico gesto che gli resta da compiere “per l’altro”, “per gli altri”. Lo splendido incipit, che non chiude la rappresentazione del massacro di Monaco ma che anzi la coglie “dialogando” con le immagini di repertorio, fermandosi e soffermandosi sul “visibile”, ovvero su ciò che la massa ha visto, ricostruendo storicamente la percezione dello spettatore palestinese o israeliano del tempo dell’evento, per la prima volta diffuso dai media su scala planetaria, è un’acuta analisi dello iato che separa visibile e non visibile, fissazione analogica e diffusione su vasta scala di un evento da un lato e “arte”, ri-costruzione, ipotesi poetica, ri-figurazione e trasfigurazione simbolica dall’altro, sul vuoto che Spielberg si azzarda di colmare segnando il confine che separa, eticamente ed esteticamente, la manipolazione dei mezzi di comunicazione di massa (dei media televisivi o radiofonici) e quella cinematografica (nei casi migliori, finalizzata alla stimolazione del dubbio, più che alla delucidazione tramite il commento dello pseudo-evidente). Un’immagine, di potenza e forza uniche, forse il take più sconvolgente del cinema degli ultimi anni, sintetizza questa dialettica intermediale: interno di un appartamento, un televisore trasmette dall’“esterno” l’ingresso del terrorista fedayn incappucciato dalla terrazza, ma è la macchina da presa a coglierlo dall’“interno”. Come a dire: il medium cinematografico può superare la superficie, penetrare la storia. Per il completamento dell’evento, Spielberg si affida all’intermediazione del suo protagonista, che “riattraversa” idealmente la tragedia, la ripAercorre e la rielabora partendo dai pochi frammenti visivi percepiti in diretta, dagli schermi televisivi. Non a caso, il primo flash di Monaco Avner lo “vede” e lo “vive” dal finestrino dell’aereo (doppio simbolico del monitor televisivo), sopra le nuvole (ovvero, al di là del visibile). Il rituale della rappresaglia, iterata fino a divenire meccanica disumana del gesto violento e potenzialmente infinito, è colto secondo stilemi che appartengono al cinema di spionaggio anni ’70: zoom, fotografia sgranata, proliferazione dei punti di vista. Più scelta “morale” che di maniera, più sperimentazione sfacciata che omaggio pedissequo ai grandi vecchi, la messa in atto/in scena degli assassini mirati è un saggio di multivisione, di “polipercezione” e “policognizione”, nonché abile gestione del flusso delle informazioni diegetiche. Spielberg rende conto dello spazio dell’azione seguendo la staffetta di sguardi dei cinque componenti del gruppo (spesso in elaboratissimi long take), ora avvicinandosi al giocattolaio belga Robert (Mathieu Kassovitz) o al freddo contabile Hans (Hanns Zischler), ora sposando lo sguardo gelido della macchina di morte a cui “interessa solo il sangue ebreo” Steve (Daniel Craig) o dell’“uomo delle pulizie” che “si preoccupa” (Ciarán Hinds), fino a giungere al perno centrale del racconto e della visione, che completa il quadro dirigendo quasi sempre, e sempre “automaticamente”, la sinfonia di morte. La violenza è il contrario del dialogo: significativamente, sono gli strumenti di comunicazione di massa o interpersonale ad essere rifunzionalizzati, a divenire strumenti di morte (telefoni, televisori). Morte, sangue, “nessuna pace alla fine di tutto questo”: una femme fatale prezzolata olandese, che muore dopo aver riservato un’ultima carezza al gatto, nuda come colui della cui morte si è resa responsabile; un giovane palestinese che assiste inerte al massacro della propria famiglia, poi ucciso dagli agenti una volta divenuto guardiano della villa dell’architetto di Monaco, “intoccabile” (forse) peArché spalleggiato dalla CIA; un intellettuale che, presentando la sua traduzione in italiano delle Mille e una notte in un improbabile bar romano, sostiene che “la narrazione ci salverà dalla morte” (come Sheherazade), prima di essere fatto fuori dagli agenti; una bimba che si diletta al pianoforte salvata in extremis. C’è sempre uno scambio di sguardi tra vittime e carnefici, tra agenti portatori di morte e obiettivi da eliminare, quasi a connettere le esistenze. La scoperta dell’altro passa attraverso la visione del volto. Chi non riconosce e si riconosce nel volto dell’altro “non esiste”… Spielberg non parla (solo) di agenti o rappresentanti di poteri in lotta, ma di uomini, di volti. Lo sbeffeggiato montaggio alternato che connette sesso e morte, che tanto ha fatto ridere i critici cultori dell’ovvio, che guardano pregiudizialmente con sospetto ogni azzardo politicamente ambiguo, è sintesi evidente di una catarsi impossibile: la responsabilità e le conseguenze di un gesto, dei gesti contro l’altro, che tanto i responsabili della strage di Monaco che gli agenti del Mossad sembrano ignorare, indifferenti ed ostili a ciò che sfugge all’immediata (e falsa) “comprensione”, ricade su chi l’ha compiuto nel momento in cui ridiventa Soggetto. Il gesto si tramuta in fardello, non c’è “amore” che possa liberare o purificare, non c’è carezza che possa rassicurare o consolare. Munich è il tragico “rovescio” degli altri film “storici” di Spielberg: Salvate il soldato Ryan e Schindler’s List. Dalla massima altruistica che segnava in maniera esplicita (il film del 1993) o implicita (il war movie del 1998) le due opere (“chi salva una vita salva il mondo intero”), al suo opposto: chi uccide un uomo uccide il mondo e, per citare una battuta pronunciata dal (dis)innescatore di bombe Mathieu Kassovitz, “perde la sua anima”. Un film dall’impossibile finale: oggi viviamo nella “sospensione” di cui Spielberg ricostruisce mirabilmente la genesi. Non a caso, nell’ultima inquadratura dello skyline newyorkese, le twin towers “incombono”… E non c’è pace alla fine di tutto questo.

Stavolta Spielberg aveva a disposizione una sceneggiatura d’acciaio, e ciò gli ha impedito di eccedere in smancerie familistiche – solo poche tracce, corrette da un’amarezza e da una vigoria di stile, da una consapevolezza dell’ambiguità del reale che trovano una riuscita anche formale di grande efficacia, soprattutto in quanto promanano e si impongono per intima necessità drammatica e con un’asciuttezza narrativa aliena da schematismi; dal canto loro i dialoghi, numerosi, godono di una concentrazione espressiva e di una spigolosa brevità che felicemente li conducono lontano dalle pose da predicatore o pedagogo assunte troppo spesso, negli ultimi anni, dal regista.
“La Patria è in pericolo” proclama la tostissima Golda Meir; e come sempre quando la Patria è in pericolo gli alti discorsi, gli esibiti tormenti morali, la retorica della suprema Salus sfociano nel crimine di Stato, nell’assassinio su commissione, nel fine che giustifica i mezzi. Non stupisce certo la somma bravura di Spielberg nella concertazione delle sequenze d’azione, la cui scansione ha qui una sensazionale forza d’urto emotiva; sorprendente è invece la tesa progressione, via via più cupa, con cui il regista accompagna i suoi protagonisti (ben differenziati nei caratteri, pur sommariamente accennati) dalla granitica certezza di stare dalla parte giusta al dubbio di essere diventati dei carnefici, e forse nient’altro che dei carnefici (l’eliminazione della sicaria olandese, in una scena di violenza quasi insostenibile, è probante al riguardo): umanissimi mostri, i quali ammazzano altri mostri per ragioni che questi ultimi possono ben ritorcere contro di loro. Sotto questo aspetto, il colloquio notturno ad Atene visualizza in modo scabro, e per questo tanto più efficace, il confronto senza luce di speranza fra due giustizieri/terroristi di parte opposta, che agiscono per identici valori.
Un altro aspetto che dal film emerge con grande eloquenza è l’oscuro intreccio delle relazioni internazionali (anche gli storici alleati nordamericani fanno il doppio gioco), intreccio che vede l’individuo come pedina d’infimo valore e riproduce – amplificandola – la livida palude morale in cui il singolo si trova imprigionato. Niente di nuovo sotto il sole, si dirà; ma all’interno di una linea narrativa scattante e incisiva che in Spielberg sembrava smarrita, e con un amore per l’ingarbugliata complessità del reale nel quale stentiamo a riconoscere il favolista di Minority report e La guerra dei mondi, ma ritroviamo lo straziato poeta de L’impero del Sole – che continua a sembrarci il suo film più bello – e il retore (quasi ovunque) austero di Schindler’s list.
La sicurezza nazionale, a qualunque costo: è una frase che abbiamo udito mille volte, più o meno avvolta da ipocriti veli. Capita poi che tale strategia assicuri alla non maggiore sicurezza ma insicurezza crescente, innescando una spirale di sangue di cui non si vede la fine. Orgoglio etnico, nazionalismo, odio xenofobo, torbidi calcoli politici: le matrici del terrore sono all’opera, e forse non basterà fuggire altrove per mettere in salvo sé stessi e i propri cari. Nello straordinario e disperato finale, e in un dialogo ancora una volta d’urticante secchezza, l’israeliano riparato a New York offre il pane della fratellanza e della pace al dirigente del Mossad: ma questi lo rifiuta, rinnegando il fratello che ha deposto le armi e si è allontanato dalla strada della vendetta infinita.
In un film così attento a dosare gli effetti (il grand guignol, non essendo sventagliato in un’esibizione virtuosistica come accadeva in Salvate il soldato Ryan, possiede una sorta di tragica necessità), c’è però una vistosa falla nella concezione registica. La scena dell’irruzione dei terroristi nel villaggio olimpico è condotta attraverso l’intersezione di tre piani narrativi: la rappresentazione diretta dei fatti, il filtro dei media, l’effetto emotivo prodotto dagli eventi che passano sugli schermi delle tv di tutto il mondo. Nel corso del film ricorrono poi sequenze del tentativo di fuga di alcuni degli atleti israeliani presi in ostaggio e del massacro finale, con i sequestratori che – presi di mira dai cecchini tedeschi – fanno in tempo a uccidere i prigionieri. Ebbene, tali scene sono visivamente costruite come flashback del protagonista; ma si tratta di flashback logicamente impossibili, in quanto Avner non era stato testimone diretto di quegli eventi. L’unico modo per rievocarli, da parte sua, sarebbe stato ripercorrere le ricostruzioni cronachistiche fornite ex post: un espediente dall’impatto infinitamente minore, e così Spielberg ha preferito sconvolgere la sintassi per non rinunciare a un effetto retorico di pura emozione, abbinandolo per sovramercato alla scena di un furioso amplesso del protagonista con la moglie. La finalità espressiva è chiara, il gusto perfido (come nel finale di Schindler’s list), l’etica dello sguardo assai discutibile.

La vendetta è una brutta cosa e non risolve niente, anzi. Questa la scomoda verità che Spielberg ha il coraggio e la pazienza di spiegarci con quasi tre ore di film. Dopo averci illuminato sul fatto che i nazisti fecero un sacco di cose cattive (Schindler’s List), dopo averci illustrato come il razzismo sia cosa deprecabile (Il colore viola, Amistad) e dopo averci ricordato che gli americani ci hanno salvato il culo nella seconda guerra mondiale e che ora dobbiamo pure comportarci in modo da “essercelo meritato” (Salvate il soldato Ryan), è il corsivo iniziale l’argomento dell’ultima lezione. Voi mi perdonerete ma io questo Spielberg non posso non detestarlo, neanche tanto cordialmente[1]. Munich, rispetto ai suoi illustri predecessori didattico/pedagogici, ha anzi un’aggravante non da poco: la pretesa di confondere un po’ le acque, l’ardire di gettare negli occhi il fumo dell’ambiguità e della complessità che un tema così scottante e attuale (la questione mediorientale) si porta dietro. I personaggi principali di Munich sono infatti lacerati dal dubbio e dai sensi di colpa e in un certo senso rifuggono (almeno teoricamente) la schematizzazione per poi giungere, però, alle solite, ovvie conclusioni: “nessuna pace alla fine di tutto questo”. Grazie. Il film si snoda così tra semplici concetti presi alla larga per nobilitarli ma ribaditi continuamente, simboli facilissimi (una pistola metonimia della violenza/vendetta osservata da Eric Bana con quella che lui crede un’espressione intensa), ridicoli picchi emotivi (il mummificato Bana[2], sempre lui, che sente il borbottio della figlia al telefono e scoppia in lacrime) e dialoghi dedicati ai meno attenti e perspicaci che fanno il punto della situazione e chiariscono, una volta per tutte, qual è il messaggio del film (l’ebreo e il palestinese si cantano l e proprie ragioni e alla fine viene fuori che sul piano umano, guarda un po’, sono uguali uguali). Rimane, certo, la competenza cinematica di Spielberg che gestisce benino l’architettura da spy movie di Munich (c’è una progressione un po’ meccanica ma i doppi giochi e l’escalation paranoica sono, tutto sommato, dove devono essere) e che azzecca qualche bella sequenza: l’incipit in cui confonde e sovrappone il repertorio al cinema, qualche temino di suspense ben svolto, buoni accenni di action movie e un omicidio da ricordare (quello della bella olandese), momento di grande cinema veramente alt(r)o di un film che vola generalmente a quote ben più modeste. Altrove, infatti, il Nostro ci propina personaggi impresentabili che si vorrebbe carichi di fascino e ambiguità (“papà”, il cuoco filosofo, maestro di vita e teorico della soffiata), caratterizzazioni geografiche da cartolina (siamo a Parigi, Torre Eiffel sullo sfondo… omaggio a Hitchcock?[3]) e sfide al ridicolo perse per KO [ le due sequenze di sesso: la prima con un lenzuolo a impedire l’ipotetica penetrazione[4], la seconda con un montaggio parallelo dell’uccisione degli ostaggi (presentata come un flashback… ma di chi?) che culmina in un tripudio di sudore]. Chiudono il film, gentile omaggio ai duri di comprendonio, le Twin Towers.

[1] I molti fans di Spielberg troveranno questa sorta di introduzione sommaria, superficiale o semplicemente odiosa. Li capisco. Al loro posto farei lo stesso. Non mi sfugge neanche che il tono ironico da me adottato possa risultare codardo, una vigliaccata di chi spara a zero senza volersi assumere tutte le responsabilità del caso. Può anche darsi; ma si sappia che in fondo, quanto ho scritto è veramente ciò che penso dello Steven Spielberg più “serio” e “impegnato”.
[2] Eric Bana è quello che è – ossia la reificazione del concetto di “inespressività” – ma il doppiatore italiano devono averlo comprato su eBay all’ultimo minuto.
[3] “Un aspetto interessante del film è che l’azione si svolge in Svizzera; allora mi sono chiesto: ‘cosa c’è in Svizzera?’. Ci sono la cioccolata al latte, le Alpi, le danze folcloristiche, i laghi; dovevo mettere nel film tutte queste cose tipicamente svizzere”. Così il Maestro parlando con Truffaut di Secret Agent.
[4] Non si creda che questo particolare sia un affare da poco: così come la violenza grafica posta in apertura, una scena di sesso del genere (diciamo moderatissimamente esplicita) mostrata da uno come Spielberg vuole settare un mood, vuol far capire che non si scherza. Peccato che basti un lenzuolo-muraglia tra i genitali a rovinare l’effetto e a ricoprire il tutto di una patina educata, pudica e in definitiva falsa.