TRAMA
Il geniale e tormentato hacker Elliot Alderson conduce una guerra invisibile contro la multinazionale E Corp e la misteriosa associazione criminale Dark Army.
RECENSIONI
Paranoid Android
[M83 - INTRO]
Giustiziere incappucciato, angelo vendicatore, dark e all black come si confà agli incorreggibili antieroi per cui amiamo tifare accucciati al caldo davanti alla tv o a un computer, che per Elliot Alderson è arma suprema di conoscenza di massa, solo in seguito distruzione: anzi, solo nel peggiore dei frangenti (quello, per esempio, che si verifica nella season premiere: un riccastrello che indulge nella pedopornografia, da incastrare con astuzia per poi svanire tra le ombre della notte). Il fatto è che la vita stessa di Elliot, per Elliot, è il peggiore dei frangenti: perché i suoi superpoteri da hacker infallibile in grado di grattare via qualunque password, codice segreto, oscuro nascondimento di chiunque incroci, scoperchiano una verità privata sempre e comunque negativa, deludente, qualche volta orribile, mai sorprendente e soprattutto mai piacevolmente. Da grandi poteri derivano gesta piccole, medie e infine - sollecitate da Mr. Robot, un Virgilio che lo spinge a farsi burattinaio di una rivoluzione sociopolitica - grandi, ma la tragedia di Elliot è il peso delle responsabilità, e soprattutto delle conseguenze. La prima, in fase crescente durante tutta la serie, punto d’inizio e arrivo della condizione psicologica del Nostro, è un’ineludibile solitudine, dalla quale non solo il genio non può salvarlo ma alla quale è il genio a costringerlo. «I hack everyone»: un istinto naturale, l’unico talento, che lo rende una sorta di Tiresia cieco solamente a se stesso e dalla vista fin troppo allenata, chiara e lucida sull’insensatezza ingabbiante delle passionette e dipendenze umane, dello scacco delle produzioni/lavaggi di cervello industriali, dei social e dei trastulli consumistici oppio del popolo contemporaneo, tanto da farci un monologo-manifesto anch’esso destinato a venir ricondiviso, retwittato, masticato, sputato e dimenticato - ma nella nostra realtà, che in fondo è la sua, in uno sdoppiamento continuo di sguardo e percezione dell’intorno e dell’attualità (la Cina, Trump, Anonymous…) che Sam Esmail manipola, rilancia e riutilizza per creare parallelismi e contraddizioni. Il gioco del doppio è solo la base su cui Mr. Robot sviluppa un vortice tortuoso sempre più e sempre troppo grande rispetto al suo protagonista, che viene gradualmente triturato dalla macchina narrativa, lentamente ridisegnato, declassato allo statuto di pedina, lo stesso ruolo che, con dolore, ha sempre attribuito agli altri.
Così come non ci vuole molto prima che faccia la stessa fine - rivelandosi cioè puro specchietto per le allodole - anche l’enfasi spettacolare che esalta la lunga macchinazione della fsociety, gruppo di rivoltosi sotterranei timonati dal mentore Mr. Robot (Christian Slater, Jason Dean aggiornato e adulto), il quale identifica nel proprio variegato team di hacker prodige i nuovi rivoluzionari, che faranno la storia con una guerrilla virtuale - tra pc e telefoni cellulari - in cui non si può sbagliare un singolo passo/tasto, radendo al suolo il simbolo turbocapitalista E(vil) Corp, multinazionale assassina (tra i molti, del padre di Elliot), unico nemico, unico obiettivo, come in tutte le storie semplici e classiche. La prima annata di Mr. Robot si trastulla infatti nella suspense elettrizzante, nelle figure stereotipiche e negli archetipi fascinatori (miscelandoli: l’antieroe, il guardiano della soglia, la dark lady, il villain-sistema da abbattere, la fanciulla da salvare), divertendosi col concetto di “doppio” (Elliot/Mr. Robot, Mr. Robot/Papà Alderson, fsociety/Dark Army, E Corp/Evil Corp, ma pure Elliot/Tyrell: Wellick, rampante vice CTO della E Corp, è un altro riverbero sgradevole del folle & dannato, del seducente matto tormentato, qui à la American Psycho) e di doppio cinematografico (imbevendo temi e contenuti in un calderone di riflessi cult - Fight Club e Matrix in prima linea - poi distorti, stimolando e allietando un pubblico che si è dapprima infervorato per poi indietreggiare). Ma nella seconda stagione non è solo Elliot a scivolare in un’alienazione più confondente che stuzzicante, in una stralunatissima fiera delle disillusioni: è la serie stessa, che sì, come da copione del successo mainstream raddoppia (…) i fattori, aumentando puntate e personaggi, ma, a un tempo, sabota il suo meccanismo, l’alzarsi della sua asticella, scavando lo strazio in caratteri altrove ammiccanti (l’agente dell’FBI Dom DiPierro, le cui interazioni con l’A.I. Alexa sono un ennesimo rimbalzo della disperazione di Elliot), allungando un brodo sempre più attorcigliato e incomprensibile, piazzando un colpo di scena che dovrebbe quasi necessariamente costringere lo spettatore a tornare indietro e rivedere metà stagione, poi eliminando il “protagonista” (virgolette mano a mano più marcate…) da un’intera puntata e facendo di un’altra parodia aspra e respingente delle sit com, forzandola nella realtà mentale di disagio feroce di Elliot che, uno, bino, trino, si smarrisce in un’impotenza che quasi corrisponde a quella di noi che lo guardiamo da dietro l’ennesimo schermo.
Dalla terza stagione in poi, e definitivamente, ecco che squarciando il velo dei “poteri forti” da sconfiggere ci s’imbatte in una catena di corruzione, favori, gerarchie e soprattutto ambiguità d’intenzioni e trame (chi e quanto e come è più forte, tra questi poteri tutti umani?). La Dark Army è una bestia che ha occhi e orecchie ovunque, incontrastabile dalla forza ingenua del “tutti contro uno”, dal paladino degli sfruttati, dal mago della tecnologia; ha una visione più ampia e cristallina di quella di Elliot, ha un corpo complesso con radici ovunque, e un’ineluttabilità intrinseca (lo si può mordere, lo si può disturbare, ma al massimo gli farai un graffio, che verrà comunque riaccorpato, meme-ato, perché in fondo null’altro che effetto speciale, fuoco d’artificio dalla vita breve). E il supercattivo, l’arcinemesi a due anime White Rose? La sua missione derivata da un trauma, proprio come Elliot è il prodotto del proprio, personalissimo e indicibile (che emerge infine nel corso di un incredibile episodio, il 4x07, inscatolato in modi tarantiniani ma strutturato come il meticoloso disvelamento, strato dopo strato, di uno shock sommerso).
Nessuno dei due è un profilo cool, fan favorite da serie-fumetto per cui tifare, ed è attraverso di loro che Esmail dichiara la natura stessa della serie, un rantolo di frustrazione che ammette sussurrandola la propria impotenza. Che sfrigola al di sotto della potenza audiovisiva e di un’inesauribile libertà artistica, perché Mr. Robot è opera robustamente autoriale: Esmail ha diretto la totalità e scritto la stragrande maggioranza degli episodi, ha uno stile riconoscibile, una narrazione personale e prismatica, una selezione musicale azzeccata quanto sempre spiazzante (da Carly Rae Jepsen agli Afterhours, dai Beach Boys a Perfume Genius), soprattutto la volontà e il piacere privo di spocchia di oliare l’ambizione della messa in scena (il pianosequenza mozzafiato della 2x05; il lungo colpo con fuga tutto muto, solo sensoriale, della 4x05), e di strapazzare gli stilemi dei generi. Thriller, sci-fi, spy story, poliziesco, action, prison movie ma anche rom com e dramma da camera: Esmail muove a smembrarne gli elementi costitutivi e studiarli, ribaltarli; a tirarne fuori le viscere per spingerle alla stilizzazione e al grottesco, alla macchietta e al nonsense, allo spaesamento (Irving, Janice, Leon). Trovandoci dentro, sempre, un palpito di mélo, una vibrazione perturbante, che le scrolli, le smascheri - perché Mr. Robot non vuole diventare la maschera di se stessa, perché sa che quello che sta raccontando, e la logica deforme del contemporaneo, del web uno bino e trino, è già vertigine di maschere, è già labirinto, è già favola nera senza più caratteri definiti. Come, ancora una volta, una volta per tutte, Elliot Alderson: un bambino vero che scopre di essere di legno, un Cappuccetto nero che si ritrova lupo, un’Alice che ha edificato il suo Paese delle Meraviglie scordandosi della realtà. La sua è una parabola anti-redentiva che chiama a gran voce la nostra complicità di esseri umani (da «ti prego, dimmi che lo vedi anche tu» a «ti prego, non giudicarmi…») e che dispera per trovare la via giusta per essere - per sentirsi - umano. Raccogliendola, infine, soltanto con l’accettazione della propria finzione, riconciliandosi con l’importanza della somma (del sostegno) delle parti e con l’irrevocabile inafferrabilità del tutto e dell’uno. Dunque, prima di tutto, del sé. Ed è lì che Elliot ritorna, in un’ultima metamorfosi, da osservato a osservatore - come in una sala cinematografica interiore - di se stesso. E dei suoi spettatori? «I hack everyone»: quindi, alla fine, anche noi.
[M83 - OUTRO]