TRAMA
1947. Il detective più famoso al mondo, Sherlock Holmes, ormai in pensione, conduce una vita tranquilla in una fattoria della campagna inglese. Si occupa di piante e api ma sente che la sua vera identità si sta sgretolando. Con l’aiuto di Roger, il figlio quattordicenne della sua domestica, Holmes riaprirà l’unico caso irrisolto nella sua vita e sarà costretto a rispondere alle domande che non si era mai posto.
RECENSIONI
Sherlock Holmes è oramai vecchio e patisce l’incipiente Alzheimer; lui, che deve la sua fama alla sbalorditiva attenzione al dettaglio e alla prontezza di giudizio, è costretto a combattere con gli acciacchi degli anni e con una memoria che tende ad abbandonarlo. Il geniale detective è una persona reale che si confronta con l’immagine romanzesca creata da Watson, muovendosi tra la volontà ironica di incarnare un personaggio che non è mai esistito (quello con copricapo e pipa che appartiene oramai all’immaginario collettivo), il non impersonarlo (rimanendo semplicemente l’uomo che è) e la tentazione di divenirne un’evidente contraddizione.
Nel film si intersecano tre livelli di racconto: il presente (in una casa isolata, lontana da Londra, Holmes vive con la governante e il figlio di questa), il passato prossimo (il viaggio in Giappone, il confronto con un ricordo, ma anche la ricerca simbolica di una nuova possibilità di ricordare) e un passato remoto (quello dell’ultima inchiesta con la quale Holmes vuole fare i conti definitivamente e che, avendo segnato la fine della sua carriera, cerca di ricostruire per fornirne una versione autentica). Questo terzo livello è il cuore della faccenda: è nel racconto che Holmes ne scrive e che sottopone al suo piccolo alter ego (il figlio della governante) che il detective si confronta con l’invenzione letteraria (il racconto romanzesco di Watson - non mancando, e qui la teoria banchetta, la verifica di una versione cinematografica -), volendola sovvertire in nome della verità («Fiction is worthless» dice). Ma questa presunta verità è solo la trascrizione di un ricordo da far affiorare dalle nebbie di una mente mistificatrice, un’immagine sbiadita che si confonde con visioni oniriche e sempre più ingombranti vuoti di memoria: di fronte a un caso di cui non si rammentano i termini e di cui la donna protagonista non si sa se ascrivere al ruolo di vittima o colpevole, la capacità deduttiva di Sherlock balbetta, patendo anche l’assenza del fedele contraltare Watson.
Condon, riflettendo in termini reali su un personaggio di finzione - come aveva fatto con il Frankenstein cinematografico, attraverso la vita vera del regista James Whale (Demoni e dei, Gods and Monsters, 1998) -, gioca di metafora e offre un nuovo spaccato sulla solitudine con la quale si percorre il viale del tramonto: narrando della coscienza della malattia e della morte che avanza, fa di un processo autentico (quello della trasmissione del sapere da una generazione all’altra) la dimostrazione allegorica del come si perpetua e diviene leggendaria un’icona. Dialoghi levigati, umorismo sottotraccia, ma messinscena statica che non sempre riesce a calibrare la pletora di motivi, cavalcati da un fin troppo consapevole ed effettato Ian McKellen.
Felice, per quanto di tono completamente diverso, riunione di Bill Condon con Ian McKellen dopo Demoni e Dei, ancora alle prese con la senilità di un personaggio famoso (che richiama quella del suo creatore, Conan Doyle), attraverso il romanzo di Mitch Cullin (Tideland) “Un impercettibile trucco della mente”: fautore di una messinscena classica, con commento sonoro (Carter Burwell) sinfonico ed empatogeno, Condon si concentra sulle recitazioni, su discreti movimenti di macchina e tecniche di montaggio per assecondarle, dando risalto alle sensazioni in ballo e non perdendo le fila di una drammaturgia che valorizzi il racconto e le sue traiettorie. Senza sottovalutare la bravura di McKellen, Laura Linney (meravigliosa la scena sulla panchina dell’ospedale) e del piccolo Milo Parker, l’ennesima, bizzarra e “privata” rilettura di Sherlock incanta per come restituisce il senso della vita nella sua interezza. Il detective combatte l’ultima battaglia contro la degenerazione che lo priva della facoltà dell’intelligenza che gli ha tenuto compagnia in un’esistenza solitaria. Si intestardisce nel ricordare il caso per cui ha abbandonato il mestiere: mentre il giallo si dipana e siamo introdotti al credo e modi dell’investigatore, è emblematica la soluzione del mistero che dichiara l’inutilità della logica di fronte ai sentimenti. L’altro tema pregnante (a parte l’omaggio “all’eroe”, che risolverà tutti i “casi” in sospeso) è quello della necessità della finzione: Holmes, per tutto il racconto, è come se maledicesse Watson che ha romanzato i suoi casi e la sua figura, ma alla fine comprende la rifinitura della menzogna che dona “cuore” alle vite altrui e alla propria. La bravura di Condon è fuori discussione, e andrebbe trattato come un autore, non foss’altro che s’ostina a dipingere figure che fanno i conti con gli errori del passato.