Documentario, Musicale, Recensione, Sala

MOONAGE DAYDREAM

Titolo OriginaleMoonage Daydream
NazioneGermania, U.S.A.
Anno Produzione2022
Durata140'
Interpreti
Montaggio

TRAMA

Vita, canzoni, esibizioni, travestimenti, interviste, video, film, visioni di David Bowie, artista dai mille volti, figura chiave della cultura glam nei primi anni ’70, sperimentatore con Brian Eno alla fine del decennio, icona del pop e del cinema negli anni ’80, sempre al centro della scena, sempre magnetico, sempre unico.

RECENSIONI

Keep your 'lectric eye on me, babe

Dopo svariati "apocrifi" come la serie Five Years, il docufilm autour de David Bowie diretto da Brett Morgen si fregia di essere il primo ufficialmente autorizzato dagli eredi dell'artista, deputati a custodire - con alterne fortune, vedi il recente maldestro tentativo di lancio di NFT - l'ortodossia riguardo il più eterodosso degli artisti caduti sulla terra. L'endorsement sacerdotale ha garantito l'accesso a una gran mole di footage inedito, a volte prospettive nuove su situazioni note, a volte esperimenti video-artistici dello stesso Bowie, altre volte scene che sarebbero banali se non fossero incendiate dall'aura e dal magnetismo di David Bowie mentre attraversa un aeroporto deserto, si accende una Gitanes dopo l'altra oppure siede di spalle, macchia espressionista blu-arancio, in una stanza giallo limone attendendo un'intervista. Ha garantito anche l'assegnazione a niente meno che Tony Visconti della supervisione di suono e colonna sonora. Un ruolo chiave, quello al mixaggio sonoro, come emerge dalle caratteristiche dell'opera. Il punto centrale è che il biopic di Morgen non è un biopic, piuttosto una esperienza immersiva o meglio una passeggiata spaziale / viaggio interstellare dentro il cosmo smisurato che Bowie fu. Si apre con il montaggio frenetico di immagini nuove e d'archivio che fece da videoclip a Hallo Spaceboy remixata dai Pet Shop Boys ed è ingresso in medias res e manifesto perché è da lì che palesemente prende abbrivio la poetica di Moonage Daydream. Se abbiamo utilizzato, non senza tentennamenti e brividi, il termine inquietante "esperienza immersiva" è necessario chiarire subito che non si ricade nella tipologia che infesta le mostre blockbuster di tutto il mondo dove la cosiddetta e. i. è risolta dall'equazione semplice diorama + (presunta) tecnologia. In Moonage Daydream ci si immerge tanto nell'audiovisivo - è un film to be played at maximum volume, rigorosamente in sala - quanto nella visione del mondo e dell'esistenza di uno dei massimi intellettuali di sempre. Per fortuna si tratta di una Winterreise dentro una scatola cranica.

Secondo David Bowie, per il suo esistenzialismo e nomadismo psichico, ogni atto creativo ha a che fare con la vita. La visione del mondo plasmata dalla teoria dell'impermanenza buddista e dalla venerazione del nudo esistere - espresse in celebri interviste, come quella concessa a Dick Cavett nell'era Ziggy - ci arriva dalla sua viva voce, senza commenti o spiegazioni e senza contesti. Il bello di Moonage Daydream è nel rigettare la lettera e la didascalia che ossessionano la nostra epoca e scegliere piuttosto la deriva e quindi l'esperienza. Moonage Daydream è il paradosso affascinante di un'esperienza iniziatica rivolta ai già iniziati: puoi seguire un filo se possiedi riferimenti pregressi altrimenti lasciarti trascinare dal flusso. Veniamo a sapere, dal flusso, che Bowie non volle mai possedere un'abitazione, un domicilio fino al matrimonio con Iman perché la stabilità avrebbe inciso negativamente sul tipo di artista che voleva essere: uno spregiudicato pioniere, un "passante considerevole" come Arthur Rimbaud, se avesse potuto intonare insieme a Iggy Pop I am the passenger. Ci sono tante piccole rivelazioni apparentemente prosaiche, in Moonage Daydream, che forniscono spiragli su un uomo programmaticamente sfuggente come Bowie, colui che nei primi '70 (per poi, come sempre, smentirsi qualche anno più tardi) dichiarò pirandelliano il sospetto non esistesse nulla sotto gli strati di maschere. Un aspetto emerge potentissimo dall'esperienza in sala: la statura titanica di David Bowie. Il giovane David fu un fervente lettore nietzschiano. Il culto della volontà, speculare e complementare a quello dell'impermanenza di tutte le cose, gli è rimasto attaccato all'imprinting.

È diffusa una bizzarra postura per cui si giudicano gli oggetti culturali come fossero definitivi, come se dovessero dire tutto (quello che vorremmo dicessero). Il tradimento della lettera - ovvero della biografia esaustiva, completa, consequenziale: i ragionieri hanno avuto buon gioco a far notare quali album mancano, quali collaboratori eccellenti, quali outfit leggendari...- non è solo adatto a raccontare un artista che teorizzava e praticava il tradimento sistematico di se stesso ma permette una messa in scena assolutamente fluida e cinetica, che procede per blocchi e associazioni, non pretende l'esaustività ma cerca (per quanto possibile) di avvicinarsi allo spirito di David Bowie, uomo dell'impermanenza e della distruzione e ricostruzione costante del mondo, della possibilità sempre aperta, dell'avventura che prevede l'abbandono di ciò che è stato fatto nell'attimo in cui è concluso e l'immediato ripartire verso altro. Coerentemente Brett Morgen traduce in linguaggio filmico gli unici presupposti filosofici che ne hanno accompagnato l'intera avventura esistenziale e creativa. La teoria dell'impermanenza, da cui la mobilità del racconto e soprattutto il disinteresse assoluto per le conclusioni. Il substrato dionisiaco nietzschiano, il culto della vita e della mobilità, velocità, trasformazione, il ritratto di Bowie come "mortal with potential of a superman". È una tensione che attraversa tutto il film: non (solo) l'agiografia dello starman, del duca bianco, di uno che fu molte delle icone pop più potenti di ogni tempo e una rockstar rivoluzionaria e venerata; non (solo) il sondaggio tra le fratture di un uomo che era (e non nascondeva di essere) estremamente timido con tendenze misantropiche, un bookworm schivo, un gentleman dalla cortesia e generosità leggendarie. Piuttosto la costante tensione tra le due, figurata con particolare efficacia nei momenti come lo shot aeroportuale già citato. Bowie è all'apice della fama e del successo commerciale, è bellissimo, elegantissimo, un dio dorato (siamo nel 1982, il periodo platino - in tutti i sensi - di Let's dance) eppure ama farsi ritrarre in non-luoghi e mood che sono il precipitato delle solitudini esistenziali(ste) dove si sono ambientati i suoi lavori più oscuri.
La disposizione rapida del materiale video si adegua anche all'apparato messianico che ha sempre accompagnato David Bowie, più o meno programmaticamente, dal leper messiah Ziggy Stardust in poi. Lui è quasi sempre in movimento e copre la superficie del mondo (ora è a Kyoto, ora nel delta cambogiano, ora a Berlino, ora in Kenya e così via, senza peso e sforzo come fa un dio), il pubblico di adepti al culto è sempre mostrato mentre corre in direzione di, come il popolo di Israele in diaspora, come nell'incipit di Velvet Goldmine di Todd Haynes, come verso un'epifania - di un dio il cui attributo è l'ipercinesi, per di più. Poi, certo, ci sarebbe da dire sull'abisso antropologico che si apre in un decennio tra i magnifici freak genderfluid che seguivano il varco aperto tra le acque del Mar Rosso di conformismo borghese dal Mosé-Ziggy e gli inquietanti qualunquisti reaganiani di cui erano fatte le folle oceaniche dello Spider Glass Tour, che Bowie stesso sconfesserà dichiando in seguito come osservasse il pubblico dal palco con disagio perché, per la prima volta, non sapeva cosa pensassero, come vivessero. Un ulteriore attributo divino che passa dalla visione di Moonage Daydream è la capacità da parte di David Bowie di essere perennemente in controllo, di ogni sillaba e gesto, in ogni circostanza (concerto, intervista, situazione mondana) senza mai perdere la grazia, sempre impeccabile. Tradisce qualche esitazione solo quando, interrogato sui rapporti freddi e difficili con la madre, si trova a rievocare l'anaffettività famigliare nella quale è cresciuto.

Se posso indulgere come i ragionieri nel sordido gioco del completismo, mi ha stupito l'assenza della capitale, paradigmatica intervista del 1999 in cui Bowie cerca di spiegare a Jeremy Paxman, che lo osserva con scherno e sufficienza, come internet sia una completa rivoluzione antropologica ancor prima che tecnologica. A fianco di immagini poco e mai viste, in Moonage Daydream trovano spazio video celeberrimi, capisaldi del pensiero di David Bowie. «Se ti senti sicuro nell'area in cui stai lavorando, vuol dire che non stai lavorando nell'area giusta. Spingiti sempre un po' più al largo di quanto pensi di essere capace. Vai sempre dove è un po' più profondo. Quando senti che i tuoi piedi non toccano più il fondo, sei esattamente nel posto giusto per fare qualcosa di eccitante»; l'autodefinizione come "generalista", la prescrizione ispirata a Isherwood di musica e corpo della rockstar come oggetto transizionale, ricetrasmittente e veicolo per osservazioni sull'individuo e la società; il racconto entusiasmante delle registrazioni di Low e della trilogia berlinese, della volontà programmatica e pura, antecedente l'ingresso in studio di registrazione, di inventare una lingua assolutamente nuova con l'appoggio di Brian Eno. Sono solo alcune delle premesse deontologiche che smentiscono, insieme alla considerazione banale che ne sono già stati fatti tanti, la necessità di biopic tradizionale.

Rimangono infine alcune considerazioni tecniche attorno alla fortuna di Moonage Daydream. Proposto come l'ennesimo "film evento" destinato a massimizzare gli incassi con l'esclusività seguendo logiche promozionali da fashion industry, il film di Brett Morgen è restato nelle sale molto più a lungo dei pochi giorni inizialmente previsti continuando a riempirle, stabilmente in prima posizione della classifica box office. In tempi di vacche magre (se non decedute) si tratta di una manna caduta dal cielo grazie all'uomo del film quasi omonimo. Circola a proposito una versione neoliberale buona per tutte le stagioni, perché non spiega nulla, ossia l'adagio dal sapore bottegaio: "quando c'è la qualità, la gente viene". Oltre a segnalare l'aleatorietà assoluta del concetto di qualità si possono tentare ipotesi più articolate. Moonage Daydream è un tipo di spettacolo che ha intrinsecamente bisogno della dimensione dello schermo e del sound system possente per un'esperienza piena, non diversamente da un episodio di Star Wars o di una saga Marvel. Appena preso posto, si viene travolti dal flusso agglutinato di suoni e visioni (sic) al modo degli esperimenti musical dei Daft Punk come Interstella 5555. Non si può non ballare sulla sedia. Eppure l'opera di Morgen riesce simultaneamente a rimanere una fruizione intellettuale articolata, profonda e non semplificata, non comprime la complessità filosofica che non si può sottrarre al tipo di artista e pensatore che è stato David Bowie senza, in questo caso sì, tradirlo. Anche qui sta un aspetto quasi miracoloso dell'operazione riuscita, l'indicazione chiara e significativa di un possibile futuro.