
TRAMA
Monica, donna transgender, ha avuto una vita altrove; la telefonata della moglie di suo fratello la convince a tornare a casa dopo molti anni, a quei luoghi che ha abbandonato quando era ancora un ragazzo, a quegli affetti sospesi nel tempo. Torna da una madre che l’amava e che aveva finito col ripudiarla, una donna a cui non resta ancora molto da vivere.
RECENSIONI
Ai tempi del suo primo lungometraggio, Andrea Pallaoro ci raccontava che il suo prossimo film, The Whale – ma sarebbe poi invece diventato Hannah (2017) – era da considerarsi un’evoluzione di Medeas, l’opera di rivisitazione del Mito che lo aveva rivelato tra gli Orizzonti della Mostra di Venezia 2013. Monica – in Concorso all’ultima Venezia –, dal canto suo, sembra voler espandere i margini discorsivi di Hannah, tanto che il regista lo definisce il secondo capitolo di una trilogia avviata proprio dal film interpretato da Charlotte Rampling. Ecco, Pallaoro, questo regista italiano di quasi 41 anni che dall’età di 17 si è trasferito negli Stati Uniti, autore che gira film americani più che storie americane, parla del suo cinema concependolo sempre tra passato e futuro, tra quel che c’è stato e ciò che verrà; un pensiero mobile. Al contrario, i suoi personaggi sono sempre colti in un punto preciso del loro tempo “esterno” che drammaticamente collide con l’indeterminatezza critica del loro tempo interiore: sono soggettività frammentate, e l’interruzione, lo spazio che separa quello che dicono (poco) e quello che “sentono”, che percepiscono (molto), è un precipizio, un abisso emotivo, è la loro disappartenenza, il loro non-luogo; sono personaggi deterritorializzati dalla realtà.
La famiglia, i rapporti e i non-rapporti di adiacenza affettiva sono sempre, nel cinema del regista, la materia prima della contesa tra scrittura e immagine. E l’aspect ratio 1.2:1 di Monica, formato che si approssima al quadrato, al contempo contiene – perché ne è sostanziato e perché lo vuole delimitare, contenere appunto – questo spazio, questo dissidio, questa ambivalenza di segni, questa coabitazione tra andamento piano della narrazione e disordine sotterraneo dell’animo. È come se, insomma, Pallaoro cercasse così di misurare corrispondenze e deviazioni, di “geometrizzare” la dimensione della relazione, della possibilità dello sguardo, le logiche inavvicinabili dell’avvicinamento, le presenze di senso, le superfici della parola e del silenzio. Ma è poi nell’inesattezza, nella fallibilità del gesto, nelle correlazioni mancate, nello scarto necessario tra false ricorrenze che il film può inseguire la sua autonoma misura, la sua significanza fragile, la sua essenzialità al di là della forma, la sua esplorazione dei «temi universali dell’abbandono e dell’accettazione, del riscatto e del perdono», come dice Pallaoro. Monica (l’attrice transgender Trace Lysette) ritorna a casa dopo che la prima scena del film ce l’ha mostrata dentro una cabina abbronzante, dopo la prima telefonata con un uomo che non l’ama più e che non vedremo mai; sembra arrivare dal set di un videoclip californiano, sembra attraversare la strada del ritorno come se fosse possibile immaginare un road movie. Torna lì dove tutto è cominciato e dove tutto è stato perduto per riconquistarlo in parte, in altre forme, altrove; torna da suo fratello (Joshua Close), da sua madre (Patricia Clarkson), conosce nipotini che non aveva mai visto e che amerà.
Monica rimodula lo smarrimento di Hannah, è un viaggio e uno scivolamento nella memoria, nelle memorie visibili e invisibili dei protagonisti, negli sguardi e nel contatto ritrovato e chissà se “riconosciuto” da una madre con quello che un tempo era un figlio e ora è una figlia; è l’istante – forse ultimo, forse nuovo – di una fotografia di famiglia che mancava da anni; è il soggetto, ma è anche l’oggetto dell’immagine, il perno di un racconto che il cineasta ha ricavato parzialmente dalla sua vita, o meglio remixando l’esperienza della malattia della madre con il vissuto di un’amica dell’autore. Un film doloroso che, tra le maglie strette del suo sentire, trova forse infine la possibilità di un punto di fuga. O di liberazione, un'altra relazione col mondo.
