Drammatico, Thriller

MONEY MONSTER

Titolo OriginaleMoney Monster
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2016
Durata98'
Montaggio
Scenografia

TRAMA

“Money Monster” è un programma televisivo trash sulla finanza. Durante una diretta televisiva irrompe in studio un giovane armato e disperato per avere perso tutti i suoi risparmi seguendo i consigli del conduttore Lee Gates. Il sequestratore fa indossare all’uomo un giubbotto esplosivo e minaccia di fare saltare lo studio se non verrà spiegato come mai i titoli in cui ha investito sono crollati in poche ore.

RECENSIONI

La grande scommessa ha illuso il pubblico di potere capire qualcosa dello spietato mondo della finanza. In realtà il film di Adam McKay sentenzia molto ma perde l’occasione di abbinare l’informazione allo spettacolo, prediligendo quest’ultimo. Cosa che accade anche nella quarta regia di Jodie Foster, tornata al cinema dopo le recenti digressioni televisive (gli episodi di House of Cards e Orange Is the New Black). Lo spunto sarebbe anche in questo caso attuale (la rabbia di un investitore che ha perso tutto), ma l’intrattenimento finisce per disperdere le potenzialità del soggetto convogliandole sui binari rodati di un thriller assai modesto. Un thriller, infatti, che si accontenta di fare giocare insieme due delle star più popolari del pianeta (Julia Roberts e George Clooney, anche produttore) attraverso siparietti condotti e interpretati con sicuro ma anonimo mestiere. Dai saliscendi dei mercati finanziari alla manipolazione esercitata dai media il passo è breve, ma la sceneggiatura, ed è questo uno dei limiti maggiori del film riflesso di come il cinema sceglie di sviscerare l’attualità, punta tutto sull’effetto. Destabilizzare a suon di colpi di scena è il nuovo mantra, ma se spiazzare è in fondo semplice, farlo in modo sensato è molto più complicato. Occorre, infatti, non solo disattendere le aspettative, ma farlo anche in modo coerente con le premesse, con i caratteri dei personaggi, con il contesto, e questo nel film della Foster non avviene praticamente mai. Ecco quindi l’anchorman gradasso e menefreghista che non si accontenta di avere salva la pelle ma vuole anche le risposte che in una vita all’insegna del trash televisivo non si è mai preoccupato di cercare, oppure il futuro padre (e pessimo investitore, va detto) che decide a cuor leggero di rendere il nascituro precocemente orfano con un grossolano colpo di testa, o la sua incinta fidanzata che anziché aiutarlo, o indurlo a desistere dall’insensato progetto, lo umilia in diretta televisiva.

Per non parlare del candore della regista dello show, novella Erin Brockovich, animata da sete di giustizia come se fino ad allora avesse condotto programmi di denuncia e non uno show pacchiano e urlato a rischio aggiotaggio. Più efficace, perché contaminato dall’ironia, il modo in cui viene trattato l’ennesimo termine swingante (il fantomatico glitch) su cui ricade la colpa degli ottocento milioni di dollari andati in fumo in poche ore, specchio incisivo dei tempi, in cui parole incomprensibili ai più (e ce ne sono di nuove ogni giorno) vengono urlate per camuffare truffe. Tanti i punti di vista da conciliare in tempo quasi reale: i due protagonisti in scena, la produttrice in cuffia, le forze speciali pronte all’attacco, l’informatico orientale, quello islandese, l’uomo d’affari senza scrupoli, la sua amante e copertura, i social network, le televisioni, la gente in strada, gli occhi del mondo. Il dentro e il fuori si intersecano continuamente e a più livelli. Il ritmo sostenuto dà l’idea che tutto sia sotto controllo, e in effetti la struttura regge, la fluidità, però, perde per strada plausibilità e spessore dei personaggi. In particolare quello del giovane protagonista, via via sempre più incoerente nonostante fosse quello più  nelle corde della Foster, perché in linea con la solitudine interiore e la difficoltà di comunicare al centro delle sue precedenti regie (in particolare l’ultimo, e sottovalutato, Mr. Beaver). Malgrado la drammaticità dell’antefatto, poi, non si teme mai che qualcosa di davvero grave possa accadere (e quando accade non lascia traccia), un po’ perché l’allure dei due divi protagonisti sovrasta i personaggi, ma anche perché prevale un tono scanzonato in cui non si perde occasione per infilare l’ennesima battutina sdrammatizzante, anche in questo caso ad effetto ma decisamente fuori luogo. Per chi si accontenta, comunque, l’infotainment, termine odioso in voga oggi per indicare il mix tra informazione ed entertainment, è servito.

Il soggetto del veterano Jim Kouf (co-creatore del serial Grimm) e di Alan Fiore è usurato, fra Re per una Notte e decine di racconti dove “l’uomo della strada” usa la violenza per ottenere giustizia: non per niente, Jodie Foster ha citato il cinema di Sidney Lumet, fra Quel Pomeriggio di un Giorno da Cani e Quinto potere (il conduttore di George Clooney è modellato su Jim Cramer). A seguire, una serie di tappe obbligate fra polizia appostata, temporeggiamento degli ostaggi e così via, infarcite con dosi di The Newsroom (l’assennata regista di Julia Roberts vs. l’imprevedibile ed irresponsabile conduttore) e pizzichi di commedia nera paradossale (la scena che vale il film: quando mettono il rapitore in contatto con la fidanzata incinta, sperando si addolcisca, e questa lo insulta ed umilia in diretta parlando solo dei soldi che ha perso investendo). Il vero motivo, vogliamo sperare, per cui George Clooney (anche produttore) e Jodie Foster (che ama definirsi regista “impegnata”) si sono imbarcati in quest’operazione è che si iscrive in un florido sottogenere del periodo, incentrato sulla crisi economica. Di fronte a situazioni, svolgimento e personaggi routinari (il disimpegnato Lee Gates prende coscienza e sposa la causa del suo aguzzino), è un peccato che il film pecchi anche di passaggi che ammiccano al pubblico americano “fregato da quelli di Wall Street” e cerchi il gran finale tragico per colpire più a fondo in modo artificioso.