
TRAMA
Quando una vicina di casa muore (a quanto pare) d’infarto, Carol, persuasa che non si tratti di un decesso naturale, inizia a indagare…
RECENSIONI
Il male ha una faccia comune, “banale” nel senso più borghesemente rassicurante del termine, e nessuno può dirsene immune. Sotto le spoglie del giallorosa (genere diletto da Allen spettatore, affrontato da Allen regista a partire da “Io e Annie”, inizialmente un mystery di ambientazione vittoriana, fino ai recenti “Criminali da strapazzo” e “La maledizione dello scorpione di giada”), l’autore prosegue la propria riflessione sulla natura umana, pendolo che oscilla fra tradimento e omicidio, mostro “abitudinario”, pronto a rimuovere tutto in nome di un ordine, di un senso del decoro alimentato dalla tradizione e dal conformismo.
Fulcro e centro propulsore della vicenda è una “monotona coppia di anziani”, la cui routine è dapprima scalfita, poi sempre più decisamente scossa, da quello che avviene (o che potrebbe avvenire) nelle vite di due coniugi altrettanto noiosi. La progressione non può non ricordare Hitchcock: da “La finestra sul cortile” ritorna la maniacalità da voyeur, la perquisizione in casa del sospettato e l’enfasi riservata all’anello nuziale, de “Il sospetto” si ripresenta il confronto fra vita e arte (il romanzo giallo che fornisce lo spunto per tendere la trappola). Ma, a ben vedere, l’ossessione per il matrimonio (e le unioni in generale), le interferenze fra la realtà e il sogno (le citazioni dei classici di genere che percorrono il film, formando una gustosa ragnatela), la totale mancanza di certezze (meta)fisiche fanno da sempre parte del bagaglio esistenziale di Allen, al pari dell’amore sconfinato, quasi paralizzante nella sua intensità, per il cinema, che, anche in quest’opera, è riflesso e soluzione dei conflitti umani.
Come nel precedente “Mariti e mogli”, la macchina da presa, nevrotica, incontenibile, invasiva, “oscena”, s’insinua nelle abitazioni e nelle coscienze, pedina i personaggi, viviseziona i rapporti di coppia, sottolinea parole e gesti in apparenza insignificanti, amplifica le percezioni destabilizzanti, “depresse” e sorprendentemente fondate della protagonista. Unità fondamentale del racconto per immagini è il piano sequenza, mai così complesso e al tempo stesso immediato: il movimento a scatti della cinepresa è il perfetto contrappunto di dialoghi brillanti e sulfurei, in una Manhattan grigio perla, assolutamente seducente nei lampi luministici delle pozzanghere (la fotografia è del solito, geniale Di Palma) come in ogni altro aspetto.
L’arte, la cui funzione potrebbe passare in secondo piano rispetto alla tragedia senza catarsi della vita umana (come avviene in “Crimini e misfatti” e “Mariti e mogli”), è la chiave della soluzione degli enigmi polizieschi e sentimentali proposti dal film. La sequenza, irresistibile, in cui Carol, Larry e gli altri si procurano il materiale utile alla finta telefonata, lo montano e lo “mettono in scena” è una dichiarazione d’intenti, che l’understatement alleniano rende ancora più forte: la finzione cinematografica non è qualcosa di diverso dalla vita, le si affianca, può mutarne il corso. La vita imita l’arte, l’arte limita (o favorisce, a seconda dei casi e dei punti di vista) la vita, e forse non a caso il signor House, proprietario di un cinema di cui intende disfarsi, è interpretato dal produttore Jerry Adler. Realtà e finzione sono interscambiabili (l’inquadratura in cui House è ucciso dagli specchi che riflettono la signora Dalton): siamo alle soglie di “Pallottole su Broadway”, anticipato dal retropalco del prefinale, e dei deliri tragici e comici che caratterizzano “La dea dell’amore”.

Fra un capolavoro e l'altro, Woody Allen si diverte con i generi stando alla larga da Ingmar Bergman e rincorrendo la spensieratezza dei film degli esordi, lasciando a bocca asciutta sia chi amava la raffica di gag e i toni demenziali di allora, sia chi s'aspetta da lui qualcosa di più di un leggero accenno satirico sui problemi della coppia annoiata. Rotto il sodalizio con Mia Farrow, ritrova Diane Keaton e lo sceneggiatore Marshall Brickman, ma i tempi di Manhattan e Io e Annie (la trama prende le mosse da una scena scritta e non girata per questo film) sono lontani: siamo di fronte a poco più di un divertissement colorato di giallo, arricchito dalla maniera delle sue geniali battute (una per tutte: "Io non posso ascoltare troppo Wagner, sento l'impulso ad occupare la Polonia". Ma la sua proverbiale cattiveria si sta affievolendo), del suo personale "Charlot", spassoso omuncolo che si finge macho ma non riesce mai a prendersi sul serio, di quell'autobiografismo che, nel caso specifico, negli Stati Uniti ha fatto scalpore (è stato accusato di molestie sessuali nei confronti della figlia adottiva) e delle numerose citazioni cinematografiche (La Fiamma del Peccato, Casablanca, L’Uomo Ombra, La Signora di Shanghai - quando gli attori imitano la nota sequenza degli specchi – La Donna che Visse Due Volte, con la scritta Vertigo su di un autobus). Sempre sfegatato l'amore per New York e per il jazz: in apertura ci regala una veduta da cartolina con in sottofondo "It happen to like New York" di Cole Porter. Idea portante: l'omicidio come terapia di coppia.
