TRAMA
Anno 2020, la prima missione della NASA destinata a portare l’uomo su Marte si conclude in tragedia, parte una missione di soccorso alla ricerca di superstiti…
RECENSIONI
Cosa c'e' oltre l'infinito, oltre le stanze settecentesche del finale di 2001? E cosa c'e dietro l'astronave di incontri ravvicinati del terzo tipo? Ecco i due film di fantascienza piu' filosofici e mistici frullati e contaminati
in una prospettiva stranamente retro': marte e' la nuova frontiera, lo spazio e' di nuovo terreno di conquista per i nostri bravi yankee con barbecue e missili in giardino, in un inizio deliziosamente arguto, che dichiara la dimensione ludico/ricapitolativa di un oggetto che piu' che un film *di* pare voler essere *sulla* fantascienza.
Ci vuole coraggio a omaggiare un mito come 2001, e probabilmente solo un rodato saccheggiatore/citazionista come DePalma poteva e doveva farlo. La leggiadria della passeggiata del giovane astronauta nel modulo rotante e il ballo in assenza di gravita', insieme a quell'enorme spazio bianco solcato dalla fenditura all'interno della testa (quasi un "negativo" del monolite) sono momenti emozionanti anche per la commovente evidenza dell'affettuoso tributo. Dal capolavoro di Spielberg e' invece mutuato il nucleo del film: il sostanziale ottimismo, la montagna come centro dell'incontro, il messaggio sonoro da decrittare come chiave per la comunicazione ("luogo" comunque tipicamente depalmiano).
Curiosamente, siamo dalle parti anche di Starship Troopers e di Mars Attack: ma se nel primo la voluta piattezza di dialoghi, situazioni e sviluppi dava luogo ad una sapida satira sarcastica e nel secondo il furore dissacrante aveva intenti palesemente parodici, qui troviamo una ironia sottotraccia, quasi malinconica nel ripercorrere luoghi comuni del film fantascientifico americano di azione. Forse troppo, dimessa e sottotraccia: la sceneggiatura e tanti snodi sono cosi' prevedibili da far pensare, in certi momenti, di essere al cospetto di una boiata stile armageddon (o, alla meglio, indipendensday) e solo attraverso certi segnali (uno per tutti il finto missile iniziale, ma anche il ciondolo di flash gordon) ci viene il fondato sospetto dell'uso voluto e consapevole del cliche' come ironico filo conduttore attraverso il quale si sviluppa un magistrale omaggio al genere.
Lasciamo perdere qualsiasi discorso sulla perizia tecnica di DePalma e sugli effetti speciali: sono effettivamente sotto gli occhi di tutti coloro che hanno voglia e gusto per vederli. DePalma ci ammannisce movimenti gustosissimi, Marte e' esattamente come me lo immagino da quando ero bambino. La verosimiglianza? Chissenefrega se l'alieno finale suona falso come una baconota da tremila, se nello spazio si sentono i rumori e i buchi nella navetta si riparano con il chewingum. Non e' un documentario di Piero Angela (anche se in un paio di momenti il dubbio sorge): e' l'opera di un (grande) bambino che ci (si) diverte con la fantascienza.
La "frase d'ordine", per lo spettatore di un film di De Palma, è: stare al gioco. Iniziare a cavillare in cerca di incongruenze, a infastidirsi per le forzature, a sovraccaricarsi del troppo cinema-cinema proiettato sullo schermo significa, semplicemente, rinunciare alla visione; è sempre stato così, dalle facce sfregiate alle missioni impossibili, dagli intoccabili agli occhi di serpente passando per controfigure e carliti briganti. Ecco dunque De Palma alle prese col suo primo (e ultimo, c'è da scommetterci) film di fantascienza, il genere che forse più di tutti lascia libertà d'agire all'immaginazione (in barba a vincoli realistici), e dunque ai voli pindarici della fantasia cinefila e al citazionismo più sfrenato e gratuito…poteva il regista cinefilo-citazionista per antonomasia lasciarsi sfuggire l'occasione? Ovviamente no. Ma. Ma De Palma fa della stima e del rispetto per l'intelligenza dello spettatore il suo Credo da sempre e così, con encomiabile onestà registico-intellettuale, scopre subito le sue carte "ingannatrici" e, come un baro buontempone e disinteressato, svela i suoi intenti prima di iniziare a giocare: parte un missile diretto su Marte ("mission to mars" confessa candidamente il titolo di testa)…anzi no. Parte un innocuo giocattolo per bambini che esplode tra coriandoli e stelle filanti. Si noti che l'inganno è edificato su (in)stabili e (dis)oneste fondamenta perché il suono col quale De Palma commenta l'immagine non è quello di un firework da notte di San Silvestro ma un rombo amplificato e "surroundizzato" ad hoc, dunque molto "serio" e molto "vero". Si noti altresì che la verità è svelata con un evidente movimento di macchina che non nasconde affatto la sua "presenza" e la sua intenzionalità. Siamo cioè di fronte a due esempi consecutivi di enunciazione marcata che, semplificando, ci dicono: "sono Brian, comando io il gioco, fisso le regole e mi prenderò tutte le libertà che voglio". Non è infatti azzardato affermare che quel piano iniziale contiene in nuce tutto il film, che si svilupperà difatti tra forzature, cambi di registro e incoerenze assolutamente coerenti, visto l'assunto iniziale. Il risultato? Una sorta di frullato dal retrogusto indecifrabile dove De Palma fa convivere le più disparate suggestioni cinefantascientifiche e non ha paura di far dialogare HAL9000 col capitano Kirk, di filmare l'atterraggio di Flash Gordon su "il pianeta proibito" e di lasciare il ruolo di special guest al figliastro dell'incestuosa unione tra E.T. e i suoi fratelli di "incontri ravvicinati del terzo tipo"; ecco perché avevamo affermato che "mission to mars" era il primo (un fatto) e l'ultimo (una supposizione) film di fantascienza girato da De Palma, perché è fin troppo evidente che è già una summa, uno schizofrenico Bignami de "la science fiction secondo Brian". Il tutto, non dimentichiamolo, girato splendidamente da un innamoratissimo del suo mestiere che non manca, come suo solito, di deliziarci con alcune sequenze da antologia: la prima catastrofica apparizione dell'"entità", tutto l'episodio della falla nello shuttle-esplosione-morte di Tim Robbins o il prefinale all'interno dell'astronave aliena (o meglio, "originaria"), solo per citarne alcune. Questo è "mission to mars", questo è Brian De Palma. Prendere o lasciare.
E' un film molto americano l'ultima produzione a grosso budget in cui si cimenta Brian De Palma. Sia negli effetti visivi, assolutamente efficaci, che nei valori in cui i personaggi credono, quindi eroismo, famiglia, spirito di sacrificio, patriottismo. A questo riguardo, non puo' non fare storcere il naso la preoccupazione di risistemare la bandiera americana sul pianeta Marte, dopo l'avventuroso atterraggio e con tutti i problemi e le incognite che la missione pone. Nonostante cio', pero', il film trasmette un senso di meraviglia, attraverso una sorta di sospensione di incredulita' che permette di bypassare i buchi di sceneggiatura e di vivere le esperienze dei personaggi e il loro stato d'animo. Non c'è la preparazione all'impresa, la spettacolare partenza, i personaggi che gridano comandi impronunciabili davanti ad un video, l'atterraggio, ma solo quello che succede in mezzo. Dopo una parte iniziale molto routinaria, in cui la missione su Marte sembra porre le stesse problematiche di una scampagnata tra amici con dialoghi da sit-com, l'emozione nasce dai primi inconvenienti che il gruppo di salvataggio deve affrontare per raggiungere il pianeta rosso. Non c'e' il tipico ritmo concitato dei film di fantascienza americani e l'azione pare diluirsi nel tempo, ben rendendo lo stato psicologico e la solitudine in cui si muovono i personaggi. Molto eleganti i movimenti di macchina, assolutamente fluidi all'interno dell'abitacolo senza gravita' dell'astronave di soccorso, che confermano l'abilita' del regista e la cura meticolosa del dettaglio in un film che, pur in modo discontinuo, riesce a comunicare un senso di stupore e di fascinazione verso l'ignoto. Un po' imbolsito Gary Sinise, che in alcune sequenze non disdegna ombretto e lucidalabbra.
Abbonato a prestare il proprio talento compositivo alle superproduzioni hollywoodiane (che si rifanno dei soldi spesi con la pubblicità occulta alla Kawasaki e a Dr. Pepper), De Palma firma il suo primo film di fantascienza. Un'opera poco personale, che prima anestetizza presentando i personaggi, poi taglia le ali della fantasia rincorrendo il realismo tecnologico e "fantascientifico" (la consulenza è della Nasa, ma il territorio rossiccio di Marte ricostruito a Vancouver non convince fino in fondo), infine tenta di riallacciarsi alla vena riflessivo-mistica di 2001: Odissea nello Spazio (ma siamo più dalle parti del melodramma sentimentale: tutti i personaggi subiscono una perdita), sposando il buonismo e l'incanto di fronte al meraviglioso di Spielberg e Contact, fra trombe d'aria a forma di drago (buon'idea), sfingi, indovinelli, rivelazioni "cosmiche" plateali e necessità di memoria storica per una civiltà perduta (tema ricorrente nelle saghe science fiction). Di suo, il regista (che, invece, dichiara d'essersi ispirato ad Uomini sulla Luna di Irving Pichel) ci mette l'immancabile piano sequenza in apertura (che raccoglie la parte più soporifera del film, con il barbecue pre-partenza degli astronauti), elaborate rotazioni della macchina da presa in assenza di gravità, una tensione invidiabile durante gli incidenti di percorso della missione, un efficace piglio tragico/emozionante nelle scene clou (straziante l'addio al personaggio di Tim Robbins), ma non può ovviare alla sensazione che sotto la superficie del pianeta (del film) non c'è vita.