Recensione, Thriller

MILLENNIUM – UOMINI CHE ODIANO LE DONNE

Titolo OriginaleThe Girl with the Dragon Tattoo
NazioneU.S.A./ Svezia/ Gran Bretagna/ Germania
Anno Produzione2011
Genere
Durata158'
Sceneggiatura
Tratto dadal romanzo Män som hatar kvinnor di Stieg Larsson
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Miikael Blomkvist, giornalista d’inchiesta, dopo essere stato incastrato da un famoso magnate e condannato per diffamazione, viene ingaggiato dall’industriale Vanger per venire a capo della scomparsa della nipote Hariett, avvenuta anni prima.

RECENSIONI

Romanzo, adattamento: la narrazione

Dei tre volumi che compongono il ciclo inventato da Stieg Larsson, il primo è il più ricco di eventi, il più anomalo strutturalmente e l’unico autoconclusivo (quindi, non obbliga al sequel, anche se pare/ sembra/ si dice che la trilogia verrà proposta per intero). Rispetto alla prima trasposizione svedese (Uomini che odiano le donne) quello che colpisce maggiormente di questo Millennium è l’agilità della sceneggiatura approntata da Zaillian che riesce a far agire efficacemente le componenti essenziali di un romanzo molto corposo, senza intasare il film di ragguagli, orpelli descrittivi, dettagli esasperati; suona allora ironico (e non escludiamo che lo sia volutamente) quello che Mikael (Daniel Craig) dice a Vanger (Christopher Plummer) quando questi tenta di elencargli tutti i membri della famiglia e di narrargli le loro storie: rischio di non capire chi è chi. Sì, perché questo è proprio quanto accadeva allo spettatore della versione di Oplev in cui si sparavano nomi e informazioni a raffica rendendo assolutamente vano il tentativo di comprensione della galleria di personaggi - indiziati (difetto ascrivibile all’intero trittico filmico, la cui pedante tendenza all’esaurimento di ogni aspetto romanzesco presupponeva, è nostra convinzione, un pubblico di iniziati alla saga letteraria che cercassero riscontri a tutto ciò che già sapevano). Quella frase diventa una sorta di manifesto per l’opera e per lo stesso script di Zaillian che, intelligentemente, evita da subito quella deriva, non apparendo affatto interessato a fornire un quadro inutilmente meticoloso dell’assetto familiare del nido di vipere Vanger, avendo cura di far comprendere l’essenziale: perché Mikael è stato convocato sull’isola, cosa è accaduto, cosa deve cercare. Che, poi, nell’economia narrativa fincheriana, sono gli unici elementi che serve conoscere.

Protagonisti, struttura: l'esteriore

Quella dell’essenzialità dei fatti da descrivere e della spigliatezza di scrittura si afferma come cifra e carattere dominante del film, scrittura indifferente a un resoconto puntuale (che invece Zodiac – programmaticamente, sia chiaro - non rinunciava a fare, cosa che lo differenzia moltissimo da tutto il resto della filmografia di Fincher – Benjamin Button escluso, oggetto a parte -), ma molto attenta a creare quelle suggestioni che l’autore sa tradurre, come pochi altri, in un’atmosfera personale, in un clima originale e riconoscibile che informa il lavoro, imbriglia l’attenzione di chi guarda e non la molla fino alla fine. In questo senso The Girl with the Dragon Tattoo ci presenta un Fincher molto lucido e capace, un Fincher che, hitchcockianamente, prende dal romanzo quello che gli interessa, esaltandone la peculiarità strutturale. Anche in questo lavoro (si riguardi la secca gestione della narrazione di Se7en e The Game)  i protagonisti, Mikael e Lisbeth, che seguono due tracciati paralleli, per poi incrociarsi dopo un’ora abbondante di film, sono - prima ancora che personaggi cui dare anima e corpo - delle funzioni che agiscono in un congegno narrativo molto concreto, in cui le loro caratteristiche emergono quasi incidentalmente, secondo un excursus che non rinuncia mai a far procedere la storia e che non conosce inciampi o pause informative. Lisbeth Salander - splendida creatura letteraria, folletto geniale e tormentato, vittima suo malgrado delle istituzioni (che diventano di conseguenza il suo vero nemico) - viene anch’essa piegata alle esigenze di un film che tutto macina in nome del mood: molto di quello che la riguarda (il passato violento, un padre che ha tentato di uccidere, le ragioni che l’hanno indotta a farlo e che hanno determinato la sua tutela) non viene detto, constatandone la storia i soli effetti attuali (il rapporto con il vecchio tutore e con il nuovo). Lo stesso dicasi di Mikael, il cui corredo informativo è ridotto all’osso, venendo narrativamente a galla quel che è utile al dipanarsi tramico: il mancato scoop sul finanziere Wennerström che determina le sue dimissioni-licenziamento (la condizione per essere assunto come investigatore), la figlia convertita (che gli dà l’aggancio biblico che gli mancava per risolvere l’enigma), la love story adulterina con Erika (il lacciolo che lo lega alla rivista Millenium anche dopo il suo abbandono) e così via. Ancora una volta: quello che serve e solo quando serve. La stessa relazione tra i due protagonisti è mostrata nel suo visibile sviluppo, senza approfondimenti intimistici: Lisbeth - le cui relazioni omosessuali si presumono una conseguenza dei disastrosi e tragici rapporti con le persone di sesso opposto - si propone a Mikael quando lo comprende figura priva di filtri, autenticamente protettiva, senza secondi fini.
Sono elementi che operano sottilmente e che, come accade spesso all’americano, rischiano di non attecchire, riportando il suo cinema al campo prediletto: il dispositivo puro (Panic Room ne è l’epitome), al preciso insieme di glaciali e implacabili ingranaggi. Millennium è film che conferma e attesta il cinema di Fincher come celebrazione di un’immagine glaciale e tecnicamente virtuosa e che pare frantumare qualsiasi retaggio d’empatia.

Azioni, sogni: l'interiore

Fino all’astrazione. In Millennium nella discontinuità della narrazione, una prima parte dall’ampio respiro s’oppone alle sincopi repentine dell’ultima, dove all’esaurirsi della detection segue un profluvio d’eventi stipato in un minutaggio risibile: è qui che la sensazione di trovarsi di fronte a un semplice meccanismo narrativo si fa tangibile. I fatti si susseguono senza punteggiatura temporale, uno dopo l’altro, senza coordinate, didascalie, indicazioni. Potrebbero coprire l’arco di mesi, sono concentrati in pochi minuti.
Ma è qui che, ancora una volta, il cinema di Fincher si fa paradossale: questo affastellarsi pragmatico d’eventi partorisce, dalle inquadrature gelate, un’emozione; non sappiamo quanto tempo intercorra tra l’acquisto del regalo per Mikael da parte di Lisbeth e la sua mancata consegna. Forse una settimana, forse un’ora. Forse la sera in cui Lisbeth vede Mikael allontanarsi con Erika è quella in cui lui sarebbe dovuto stare con la figlia (e quindi ha mentito a Lisbeth), forse no, è semplicemente un altro giorno. Non è dato a sapersi: quel che importa è il tempo cinematografico. Perché in quel frangente Fincher trova la misura di un cinema classico contemporaneo, che delinea le psicologie tramite azioni e reazioni, in un tempo postindustriale, frenetico sino a farsi assente. In quel momento si giustifica il titolo originale, concentrato sul personaggio femminile: lì, Fincher è aderente al sentire di Lisbeth, alla forma del suo pensiero. E’ questa, per lei, la consistenza del melò, contrappunto neoclassico dell’urlo espressionista dei titoli iniziali.
Quanto si agita nei due protagonisti – vissuto, carattere, pulsioni – Fincher, infatti, senza perdersi in psicologismi o pallosi racconti anticipativi o illustrativi (se trilogia sarà, le cose verranno affrontate al momento), lo condensa tutto nella fantasmagorica giostra visiva del videoclip-incipit che, per libere associazioni, in un vortice onirico, concentra passato (il fiammifero che incendia la testa del padre di Lisbeth, la ragazza che giocava col fuoco), presente (Lisbeth, l’hacker che agisce sulla realtà tramite i cavi connettori) e futuro (Lisbeth che si apre con dolore alla vita, sbocciando come fiore nero dal fango, dopo aver salvato la vita di Mikael, prigioniero imbavagliato, a un passo dalla morte).

Poetica (update): uomini, donne

Se in The Social Network la vendetta tutta maschile di Zuckenberg nei confronti della sua fiamma (e del sesso femminile) si trasforma in Facebook, un affare che lo rende milionario, in Millennium la vendetta tutta femminile di Lisbeth nei confronti del Maschio prevaricatore la porta a diventare padrona del proprio destino e di un conto in banca di un paio di miliardi di dollari: la Contemporaneità è ancora il centro della riflessione del regista che in queste due ultime opere si concentra – in un’ottica di aspro confronto tra fronti contrapposti - sul potere pervasivo della rete e su quello, ad essa connesso, dell’alta finanza.
Le stronzate maligne le dici da una stanza buia perché ormai quelli come te sfogano così la rabbia diceva (a Mark) Erica/Rooney Mara in The Social Network. Rooney Mara è Lisbeth Salander in questo Millennium e ha cambiato barricata: adesso è lei la geek rabbiosa che, da vittima, ribalta la sua sorte, prende in pugno la situazione e piega, a suo vantaggio, i paradossi dell’era internettara.

Poetica (update): vecchi media, nuovi media

Fronti contrapposti, si diceva. The girl è cinema dei due mondi, messa in conflitto di due visioni, due linguaggi: quello scrittoriale di Blomkvist, quello newmediale di Salander. Una forma mentis, quest’ultima, che pare decisamente superiore (per velocità ed efficacia) a quella legata all’epoca della stampa: non c’è la separazione tra ragione umana e sapere tipica della società scrittoriale e analogica (l’uomo, il libro), nell’intelligenza newmediale c’è immersività negli ipertesti, necessità di esplorare, interattività (tanto che, nei citati titoli di testa, il digitale diviene biologico, i cavi paiono nervi). Fincher, cineasta tecnologicamente avanguardista e intimamente classicista, risolve il conflitto in pareggio: lo scioglimento del whodunit avviene per entrambi nello stesso medesimo istante, nel contemporaneamente di un montaggio alternato. Anche in questa scelta, insomma, il regista mira a sposare le due anime che percorrono il suo cinema: la tentazione del classico (cfr. Benjamin Button) e l’aderenza al Contemporaneo. In Millennium, come diremo, la detection non restaura, s’insinua in nuove strade (il colpevole non è uno solo, l’omicidio non è uno solo), si nega (la vittima non è stata uccisa), non mima solamente la logica causale, ma s’adagia anche nel casuale e s’apre a continui collegamenti.

Poetica (update): serial killer, detection

Se in Se7en la detection è strumentale al film (e il serial killer viene individuato), in Zodiac è il fine stesso del film (e il serial killer non viene individuato), in Millennium è un elemento tra altri del film (e in principio non presuppone un serial killer). L’investigazione di Mikael, che si applica a un fatto risalente nel tempo, nasce per indagare sull’omicidio di Harriett e diventa solo a posteriori la caccia a un omicida seriale (per giungere al paradosso finale della scoperta che il delitto che ha messo in moto quell’indagine non è mai avvenuto). Nella visione laica di un regista come Fincher il Male trascende l’Esistente: in Se7en la morte cercata del serial killer rende compiuto il suo disegno, in Zodiac l’omicida seriale rimane irraggiungibile (inafferrabile sotto gli occhi di chi guarda); in Millennium la pratica delittuosa non si cristallizza in una figura, ma è un gene astratto che viene ereditato e, volenti o nolenti, tramandato, congiungendo il particolare di queste morti alle Grandi Tragedie. [1]
Il giallo - qui, in principio, nella sua forma più canonica, il whodunit appunto - è il genere del raziocinio, della Restaurazione di un Ordine ora compromesso. Ma come in Se7en, come in Zodiac, l’Ordine è un miraggio e l’enigma al centro della questione (che fine ha fatto Harriett?) rivela una soluzione che, ancora una volta con Fincher, è di immediata, ma inconsapevole evidenza: Harriett (Joely Richardson), sotto mentite spoglie, viene reperita a Londra e interrogata. Un dettaglio: non sappiamo ancora che è lei. Come in The Game, come in Fight Club c’è una finzione narrativo/identitaria ad agire, c’è un sottile filtro che non consente allo spettatore di capire che quanto va compreso è davanti ai suoi occhi. Non sorprende allora che, in un adattamento sostanzialmente fedele, l’unica cosa che viene modificata rispetto al romanzo è proprio questo elemento: nell’originale la donna è viva, sì, ma in Australia, e viene ritrovata solo alla fine, per essere poi riportata al cospetto dello zio; nel film di Fincher invece, con un gioco di scambio di persone, Harriett, sul cui omicidio Mikael indaga, si trova quasi subito sotto gli occhi dello spettatore, come quel famoso fotogramma subliminale di Fight Club (il fallo) che passa fugace, tra i ventiquattro che abitano un secondo di film: l’occhio non lo vede, ma la mente lo registra. Sì, Fincher è un autore, non rinuncia alle marche identificative della sua poetica. Nell’immagine asettica e chirurgica di questo cinema, nel riproporsi ossessivo di uno schema meccanicistico, la pretesa scientifica è posta sistematicamente sotto scacco: lo specifico umano rimane (eventuale) residuo.

 [1]
Ah-ah-ahhh-ah!. Ah-ah-ahhh-ah!
An' we come from the land of the ice and snow,
From the midnight sun where the hot springs blow.
How soft your fields so green
Can whisper tales of gore of how we calmed
The tides of war. We are your over lords.

canta Karen O nel prologo, sulle note distorte di Immigrant Song dei Led Zeppelin manipolate da Trent Reznor e Atticus Ross.
Millennium è, a suo modo, un’opera politica: perché nelle terre fredde, tra le linee secche della Svezia, trasfigura nel negativo caricaturale il nepotismo finanziario, facendolo luogo di un’oscenità post-nazista, nascondendo nella pace di case eleganti l’orrore. Sotto il vestito aristocratico, la violenza.
È qui il caso di segnalare che la clinica solidità del film di Fincher trova, ancora una volta dopo The Social Network, le note di Trent Reznor (come non notare il logo NIN sulla t-shirt dell’hacker complice di Lisbeth…) e Atticus Ross: il clangore metallico della musica del duo ci pare un completamento perfetto della visione fincheriana, esaltandone anche il lato oscuro e infernale, in equilibrio con le sue immagini. E’ plausibile pensare che un sodalizio sia nato.

Luca Pacilio & Giulio Sangiorgio

Fincher vs. Oplev

Era già successo con Panic Room: il talento di Fincher, ogni tanto, si presta a soggetti che non lo meritano. La saga dello svedese Stieg Larsson, per quanto baciata dal successo, ha coordinate giallo-thriller risapute, ma è forte di un personaggio insolito come quello di Lisbeth Salander: è fondamentale restituirlo a dovere. In Uomini che Odiano le Donne, Oplev c’è riuscito. Fincher no: grazie al peso del suo nome a Hollywood, riesce a non edulcorare gli ingredienti più scomodi (la scena dello stupro è davvero disturbante) e a non americanizzare le location, pur dovendo accettare una star (Daniel Craig) che poco rispecchia il Mikael Blomkvist di Larsson. La sua visione ghiacciata dell’intrigo è certamente più dotata, per non dire sprecata (e i magnifici titoli di testa di metallo liquido sembrano l’apposizione di un marchio di qualità su di una marchetta). La sua drammaturgia cerca il tocco personale: il perenne parallelo nel montaggio delle azioni dei due protagonisti; il giallo svelato attraverso le fotografie maniacalmente “messe in scena” (ma, rispetto a Oplev, non altrettanto intellegibili come chiavi del rebus); la costellazione della figura adolescenziale, assente nel film svedese, fra vittima su cui s’indaga, hacker punk e figlia del giornalista (che risolve il rebus biblico al posto della Lisbeth del film precedente). La sceneggiatura di Steven Zaillian dà una lezione da manuale ai colleghi scandinavi su come condensare le pagine scritte: quel che in Oplev era buttato anche alla rinfusa, qui non fa una grinza. Ma Lisbeth Salander non c’è: per quanto, nominalmente, protagonista sin dal titolo originale (che perde per strada l’unico sottotesto possibile di Larsson: la vendetta sugli uomini che odiano le donne), è una figura sbiadita ed impotente. Dove Zaillian e Fincher cercano di addolcirne la figura (vedi il finale inventato di sana pianta), gli svedesi, con maggior coraggio, sono stati ruvidi (e fedeli a Larsson), cucendole addosso un carattere (solo) spigoloso e/ma saldo su principi senza compromessi. La trilogia svedese è anche miracolata dalla presenza di Noomi Rapace: le basta uno sguardo per rendere attrattiva Lisbeth Salander nonostante tutto, dove Fincher si affida al sentimentalismo. Rooney Mara non è all’altezza, poco aiutata da battute e azioni che non ne definiscono altrettanto bene il carattere iconoclasta.