
TRAMA
Rocco Musco con la sua gang di sgherri sta aspettando Ugo Piazza, ex membro della banda finito in prigione, all’uscita di San Vittore per scortarlo dal boss mafioso detto l’Americano affinché possa raccontare dove siano finiti i trecentomila dollari del passaggio di consegne a cui aveva partecipato prima di essere arrestato.
RECENSIONI
La sinfonia d’archi bacaloviana (riarrangiata poi elettronicamente con sfumature decisamente progressive all’interno del film dal gruppo partenopeo degli Osanna, estrapolata direttamente da La vittima disegnata di Lucidi e rielaborata per l’occasione, e che riapparirà in altre pellicole del regista come Madness – Vacanze per un massacro) del prologo è inequivocabilmente un rondò funebre che prefigura tutta un’atmosfera mortuaria all’interno di Milano Calibro 9. D’altronde il conto alla rovescia presente in sovrimpressione nelle copie originarie della pellicola oltre a servire da espediente funzionale per la gestione ritmica della tensione, funge da contrassegno ineluttabile di una morte annunciata. Viene voglia di soffermarsi indefinitamente su un incipit stupefacente che abbracciando Piazza del Duomo definisce l’unità di luogo e il vero protagonista del film, la città, con quel carosello insistito di sagome e volti, accompagnati fluidamente dalla m.d.p., che tratteggiano ab initio il preciso paesaggio umano che lo abita perché è proprio in questa prolusione che vengono delineati dopo poche inquadrature la stimmung tra Di Leo e Scerbanenco, l’incontro tra due sensibilità attigue e affini nel descrivere con modalità spregiudicatamente realistiche l’altra faccia di un’Italia adagiata sulle incerte sorti del boom economico; l’uno attingendo a un immaginario cinematografico riconoscibile e riconosciuto, benché poco praticato nel cinema nostrano (Huston, Melville), l’altro restituendo carne e sangue alla dimensione del giallo, riesplorando quindi il materiale da cronaca nera. È grazie all’influenza della pagina dello scrittore di origine russa (soprattutto la lettura dei racconti radunati nella raccolta I Centodelitti, Stazione centrale ammazzare subito,La vendetta è il miglior perdono, etc.) che Di Leo tenta – riuscendoci, almeno per quello che gli compete – di rendere fertile un terreno così poco dissodato come il genere noir, facendone anzi una cifra distintiva del suo cinema proprio mentre all’interno della cinematografia italiana bis stava esplodendo il fenomeno del filone poliziesco, con i suoi commissari di ferro e le sue indagini strumentalisticamente sociologiche; filone che peraltro non gli rimarrà neanche così estraneo per via delle numerose sceneggiature da lui firmate e declinate su questo versante e per Il poliziotto è marcio, diretto nel 1974 (anche i famosi pistolotti e contro-pistolotti pronunciati da Frank Wolff e Luigi Pistilli in Milano Calibro 9 non lo esimono del tutto da questa appartenenza). Quello che funziona davvero a meraviglia in questo primo capitolo della cosiddetta trilogia del milieu, oltre a una calibratura di rara precisione tra montaggio e senso dell’inquadratura, tra sceneggiatura e diegesi visiva, è l’aver raccontato una Milano veristicamente livida attraversata iconograficamente da navigli brumosi e grattacieli luminosi, stamberghe periferiche e appartamenti à la page frequentati dall’alta borghesia meneghina (bellissime le sequenze del night con la Bouchet splendida creatura tersicorea, e del loft di Nelly del cui décor in bianco e nero la presenza femminile sembra costituire un sensuale complemento d’arredo), popolata da organizzazioni malavitose d’alto rango e truand da bassofondo metropolitano, coniugando dunque un’urgenza realista, balzachiana, con un’istanza melvilliana di mitologizzazione del genere, percorso estetico che delimita le scaltre movenze – inclusa la doppia macchinazione – dell’antieroe Ugo Piazza nel suo tragico e desolato itinerario noir tra faune criminali e geografie urbane. Straordinari interpreti (Moschin, Adorf, Leroy, Stander) per un film irripetibile.
