
TRAMA
Dopo il fallimento di un’operazione che ha portato alla morte di tre agenti, i detective Rico Tubbs e Sonny Crockett s’infiltrano in un traffico di armi e droga che fa capo a un pezzo grosso della mala ispanica.
RECENSIONI
Non si sa da dove iniziare l'elogio di Michael Mann. La struggente resa visiva di un mondo sotterraneo perforato dai neon e annichilito dal sole (un'ovazione al direttore della fotografia Dion Beebe); la salda struttura drammatica, che non tenta di sciogliere gli infiniti nodi della trama ma se ne serve per incatenare al meglio lo spettatore; il profilo asciutto e angoloso dei dialoghi, sospesi fra inglese, creolo e spagnolo; la recitazione a fior di labbro di un cast che sa quello che fa e lo fa dannatamente bene (Farrell mette la sordina all'abituale gigioneria e forma con Foxx una coppia assolutamente plausibile, Luis Tosar è un villain di lusso, l'astro di Gong Li rifulge nell'aristocratica fragilità di Isabella); tutto in Miami Vice contribuisce a creare un affresco dal respiro insieme grandioso e intimo, perfettamente a proprio agio negli schemi del genere poliziesco e al tempo stesso capace di muoversi con meravigliosa libertà lungo binari che sono solo suoi. Antitelevisivo nel ritmo (sinuoso e imprevedibile, infuocato da brusche accelerazioni che precipitano in una calma livida - memorabili, da questo e altri punti di vista, la sequenza del "colloquio" nel covo dei trafficanti e quella del salvataggio di Trudy, una sinfonia immobile di fremiti notturni) e nell'estetica (i dettagli gore delle sparatorie, le scene di sesso stilizzate, pudiche e insieme fameliche), il film è lo specchio di un pessimismo senza sconti o romanticismi di riporto. Sotto la scorza nerd-modaiola di prammatica, i personaggi sono esseri vulnerabili, tormentati meno dalle pallottole che dalle parole (Montoya e Isabella in camera da letto), assediati da dispositivi elettronici che catturano le ombre e devastano la carne: una sofferenza alimentata (dall)a distanza, segnale di una divinità oscura che esige sacrifici supremi nel nome di una speranza impossibile (la struggente scena conclusiva).
Miami Vice: un incubo a occhi aperti da cui è doloroso svegliarsi.

Il cinema di Michael Mann ormai risiede stabilmente nella grandiosità della forma, nell’iperbole visiva, nell’estremismo dello stile. Ogni suo film si spinge sempre più avanti nella ricerca di un realismo così radicale da trasfigurare in febbrile iperrealismo, apoteosi del dettaglio saturo di senso e dell’energia dardeggiante degli sguardi. Basterebbe questo a renderlo un gigante. Eppure Mann fa molto di più: nelle sue opere elabora immancabilmente, incapsulandole alla perfezione nel tessuto filmico, speculazioni teorico-estetiche al calor bianco. Basti pensare alla glorificazione dell’estetica delle superfici di Manhunter o alla digitalizzazione della notte metropolitana di Collateral. Pseudoblockbuster dall’anima d’acciaio, Miami Vice non fa eccezione: contiene infatti una riflessione di esemplare lucidità sulla posizione di Michael Mann all’interno dell’industria cinematografica hollywoodiana. Che, senza mezzi termini, è quella dell’infiltrato. Stare contemporaneamente dentro e contro l’istituzione è una brutta contraddizione, ma a Mann l’acrobazia pare riuscire sempre meglio, la sua abilità nel modulare i sottotesti risulta sempre più sottile. Quando Sonny Crockett pretende di illuminare l’organizzazione dall’interno, “dal momento che nessuno è arrivato a livelli così alti”, è Mann che sta parlando di sé e del suo ruolo di guastatore interno all’istituzione, della sua azione di sabotaggio transhollywoodiano. Più in generale è l’intera organizzazione criminale ad essere rappresentata come l’industria cinematografica: forte struttura gerarchica, inviolabilità degli accordi, negoziazioni estenuanti, rigidità dei tempi, delle consegne e così via. Tutto sembra riecheggiare il complesso sistema hollywoodiano: il vertice non si sporca le mani con l’esecuzione delle operazioni, “compra un risultato”, si occupa di finanza, è inarrivabile. Poi ci sono gli avversari diretti, “i maiali pazzi” che controllano il lavoro sul campo, meccanismi di un ingranaggio che può benissimo fare a meno di loro e sparire all’improvviso. Da infiltrato, Mann non può che puntare alla disgregazione della compattezza strutturale dell’organizzazione: il suo script frantuma la grammatica narrativa, il digitale fluorescente e sgranato di Dion Beebe aggredisce la materia visiva e il montaggio rabbioso di Paul Rubell sbrana la sintassi filmica. Ne deriva un film segretamente insubordinato, aperto e chiuso da silhouette in controluce e attraversato da immagini permeate di pura energia visiva, lontane dalla retorica sentimentale hollywoodiana e cariche di un’intensità squisitamente manniana. Vettori emotivi. E anche se il sistema è invulnerabile – letteralmente e metaforicamente - Mann è riuscito a farlo vacillare per 140’ con un noir di splendida, conquistante ambiguità.

Scelta e Destino sono i pianeti che gravitano nell’universo Mann; i suoi personaggi vivono dietro il guscio del corpo e realizzano lo slittamento dal piano dello stereotipo a quello del modello, mostrandosi come vettori di senso, proiezioni di e/o portatori di, quindi creature mitologiche. Questi involucri costretti al ruolo per essi designato si dibattono in catene e, se agognano all’eventualità di scegliere, lo fanno solo per riscoprirsi intimamente marchiati. E’ la speranza illusoria, nella rete di sovradeterminazione laica e implacabile, la miccia per l’esplosione del tormento, del dolore, del dissidio che ignora la ricomposizione – già venti anni fa Dollarhyde aka Dente di Fata, serial killer di Manhunter, uccideva nell’ansia della Trasformazione e nell’impossibilità ontologica di afferrarla motivava la sua follia. Innegabile risulta l’acuta sartoria con cui il regista cuce il prospetto, dissimulandolo da intrattenimento solo per mostrarne le complesse manipolazioni; il ruolo segnato, l’immagine soffocante – la diceva lunga la trattazione del media televisivo in The Insider, come variazione e completamento del tema -, il rovello etico che ne deriva e, rivelandosi insolubile, introduce all’amarezza della sconfitta esistenziale. Lo scontro tra titani, che in questa galassia non smette di ripetersi (da McCauley/Hanna a Max/Vincent di Collateral), non è momento risolutivo ma esercizio sulla cristallizzazione dell’attimo (l’occhiata, il gesto e la postura) che mantiene intatto il nodo del conflitto, il bruco non diventa mai farfalla. Miami Vice non fa eccezione, muove anzi nuovi passi di questo percorso: dal lato formale Mann torna al classico, una storia di malaffare, ma conferma davvero la definizione umanista del suo occhio, quando emerge la solidarietà dell’uomo per l’uomo (Non ho mai dubitato di te, dice Ricardo al collega) e l’annoso groviglio a proposito (ancora) del libero arbitrio. E’ un film espressionista, più o meno latente, laddove oltre la misura temporale della sequenza conta l’intensità delle emozioni in movimento, sfiorate sempre, mai colte appieno ma delicatamente supposte, per questo più devastanti. L’impiego unico del digitale, iniziato con Alì, è la chiave per accostare linee cromatiche e disegnare sottintesi sconvolgenti – si prenda la ripresa d’apertura, che afferra il racconto in fieri: nello sfavillante scontro di colori in discoteca si legge il presagio del contrasto nell’animo dei protagonisti -, la macchina a mano è devota ancella di Mann nel pedinare l’intreccio, nello scolpire ogni ruga, nel rubare sensazioni. Il gioco vorticoso degli sguardi, perenne fra tutti i personaggi, si riflette in quello degli ambienti; una pellicola sospesa tra luoghi, dove Miami e La Habana si spiano a vicenda – solo il confine avvicina gli opposti James/Isabella, sfumano i contorni - , due costellazioni e diverse violenze a confronto che riaffermano per metonimia la battaglia tra uomo e destino. Il film, servendosi proprio di questo sfondo, si spoglia dalla contemporaneità e si rapprende su un piano superiore dal sapore universale (eccola qui, oltreoceano, l’ultima traccia di Epica, non nei fumosi lavori di Eastwood). Miami Vice è manniano nel cuore, come attestano le sue scene da urlo: su tutte l’uccisione del bastardo neonazista, animata da un dialogo di fuoco pienamente riconoscibile; la sparatoria finale, dove lo sguardo di Gong Li a Farrell gonfia l’istante di lancinante significato e propone in Mann un artista della sintesi. Dopo un film magnifico, infine, l’ultima scena ritaglia una chiusura posticcia alla vicenda, rifugiandosi nel canovaccio del montaggio alternato e della contrapposizione facilmente leggibile; il pegno industriale già presente in Collateral, una mancia che il regista lascia ancora volentieri per sviluppare liberamente il suo impianto.
Duplice, al solito, sarà la fruizione dell’opera: si può calare la scure spuntata del remake – etimologicamente errata, restando dalla serie tivvù una sola citazione: i nomi degli agenti -, si può bollare il film su commissione oppure seguire i rami della storia, decifrare pedine falsamente speculari che si prendono e lasciano (la doppia scena di sesso: una è parodia – lo scherzo di Ricardo -, l’altra ambiguità, in entrambe si affaccia l’amore), scoprire al secondo livello i percorsi nascosti della tragedia morale. Interpretazioni assolute: Foxx si avvia sulla strada del feticcio; Farrell, mai tanto in ruolo, pesca l’asso che non troverà più; Gong Li entra con dolce prepotenza nella galleria delle splendide femmine del regista. Torna il grande cinema americano, con l’ultimo miracolo di De Palma, con Michael Mann, e riporta la visione pura al centro della sala. La clientela, quella disintossicata dalle nebbie commerciali, forse saprà perfino riconoscerla.

Le città e i villaggi (dagli USA alla Colombia a Cuba) sono organismi viventi, nel cinema di Mann (si pensi alla Los Angeles di Collateral): il tappeto o la quinta o il fitto scenario brulicante della febbrile corsa per il dovere (giustizia o crimine, fa lo stesso) e verso la disperazione – o la morte, nel migliore dei casi – dei suoi personaggi.
Miami Vice offre un saggio di questa presenza che freme, scruta, grida, gode, soffre. Non tanto la sincopata sequenza iniziale, che pure imprime uno strepitoso la al film, quanto le successive e numerose sequenze di “attraversamento” (quanto contano i mezzi di trasporto, nei film di Mann, e quanto tempo vi trascorrono i suoi personaggi!), come tutti i momenti in cui i protagonisti stanno abbarbicati, su una piattaforma o una terrazza o un elicottero, tra i ferri crepitanti del cielo, e sotto di loro scorre una colata lavica di luci e rumori, un formicolio d'esistenze accidentali.
Si vive e si muore per destino, per errore, per sciocca casualità, perché quel ventre arcano e potente ci chiama a sé; e i personaggi e il loro creatore si sforzano di afferrare quella presenza sfuggente e quasi metafisica, ma incalzante, in almeno tre momenti: subito prima di avanzare verso la corsia stradale, Alonso – o quella che fino a un momento prima era una sua soggettiva – sposta lo sguardo dai suoi interlocutori, che gli sono di fronte, verso un punto eccentrico, dove non c'è nulla di materiale che dovrebbe richiamarne l'attenzione; sghemba e vagante inquietudine che si rivela ancora durante il secondo confronto con l'agente FBI: questi si allontana e la m.d.p. lo mette fuori fuoco, per scendere a indagare il vuoto notturno che sta, silente e minaccioso, in mezzo ai personaggi. Infine, durante la conversazione tra Sonny e Isabella (asciutta e bellissima, lontana dalla retorica vibrante ma fuori luogo e fuori tempo che altrove Mann ci riserva, segnatamente nel rapporto fra Rico e la sua donna): i due stanno parlando, e lo sguardo del regista li oltrepassa, cadendo a piombo in mezzo alla stradicciola del paese cubano in cui i due si trovano; come se i personaggi in carne e ossa fossero inessenziali, comunque meno centrali del fantasma che l'occhio del regista vuole catturare.
Al pari dell'invisibile ragnatela tragica che li avvolge, gli uomini e le donne di Mann (qui, ancora una volta Sonny e Isabella, gli altri due non riuscendo a sortire da una funzionalità narrativa di genere) sentono il richiamo di qualcos'altro che è là, insieme a loro, e sentono che potrebbero tentare di essere felici, se solo riuscissero ad afferrare questa possibilità, questo altrove. Sonny è più disponibile: in un momento cruciale della missione si estrania, guarda lontano, nel cielo sfreccia un aereo che porta chissà dove; lei è più chiusa in un senso di impotenza: quando Sonny la invita a scoprire davanti a sé un futuro diverso, lei risponde “Guàrdati intorno; non c'è altra realtà che questa, e qui tutto è di Jesus Montoya”.
Le identità reali e quelle simulate si scontrano, prima o poi; così dice Rico a Sonny. Quando ciò accade, ambiguità e tensione non si sciolgono per uscire dal mistero della notte vestiti a festa come una nuova e fruttifera verità, ma si addensano in un grumo di dolore e di rinuncia: la scelta che prima o poi bisogna compiere è quella di lasciarsi agglutinare dal proprio destino. Questo momento viene frazionato, in Miami Vice, in due magnifiche sequenze; quella del decisivo scontro a fuoco principia con un moto d'allontanamento – un carrello-panoramica che sfocia in un carrello a precedere, evidenziando fra Isabella e il suo presente-passato (uno scenario che diventa una macchia grigia) una sorta di spinta repulsiva – e culmina nella rivelazione della seconda identità di Sonny.
La seconda sequenza, unita alla prima da una traffigente transizione drammatica affidata ancora una volta al viaggio, è quella della separazione dei due amanti: la rigidità della coppia campo-controcampo viene scossa dal moto singhiozzante della m.d.p., mentre l'inarrestabile allontanarsi della nave ci dice che i giochi sono fatti, che “niente è più possibile, ormai”, che dobbiamo andare incontro a un fato di sconfitta, di memorie e desideri infranti, di rimpianto e rassegnazione. Le dimensioni impressionanti dell'invaso naturale, l'agitarsi impazzito degli alberi, il piombo del cielo, il mare che sembra ingoiare l'imbarcazione nel proprio infinito, l'alba filtrante dalle nubi, il volto affranto – e più bello che mai – di Isabella e i suoi capelli agitati dal vento, il suo sguardo inesplicabile come quello di una divinità decaduta, l'addio. Uno dei momenti per i quali dobbiamo essere grati dell'esistenza del cinema. Ora, siamo pronti a rientrare insieme con Sonny nel fiume della città.
