Drammatico, Horror, Recensione, Streaming, Thriller

MEN

Titolo OriginaleMen
NazioneU.K.
Anno Produzione2022
Durata100'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Harper Marlowe decide di trascorrere una vacanza da sola nel piccolo villaggio di Cotson in seguito all’apparente suicidio del marito James. Nei flashback, viene rivelato che Harper, stufa dell’abuso e della manipolazione emotiva di James, intendeva divorziare da lui, portando James a minacciarla di suicidio.

RECENSIONI

È possibile per un uomo scrivere e dirigere un film che incarni il punto di vista complesso e sfaccettato di una donna? La domanda, in questi anni tumultuosi, non è banale. La risposta, fortunatamente, è ancora sì. Lo dimostra Alex Garland, che dopo aver sceneggiato grandi film come 28 giorni dopo (Boyle 2001), Sunshine (Boyle 2007) e il bello ma poco ricordato Non lasciarmi (Romanek 2010), ha deciso di lanciarsi definitivamente dietro la macchina da presa, regalandoci prima prodigi come Ex machina (2015), poi piccoli inciampi – almeno per chi scrive – quali Annientamento (2018), e infine quell’eccezionale ordigno fantasy-horror-psicanalitico che è Men.
Non sembra esserci pace per la povera Harper Marlowe, londinese tutta di un pezzo attanagliata dal trauma di un marito prima manesco e instabile e poi suicida, e dai conseguenti sensi di colpa. L’unica soluzione per leccarsi le ferite è la classica fuga in campagna, nell’ameno villaggio di Cotson, dove potrà, forse, fra i silenzi rotti solo dal tenue fruscio delle fresche frasche, ritrovare equilibrio attraverso un’introspezione solitaria. Ancora meglio se tutto ciò in una sontuosa tenuta presa in affitto da Geoffry, nobile campagnolo un po’ goffo nei modi. Al contrario dei pronostici, però, la situazione degenera abbastanza in fretta, riportando immediatamente Harper nel suo inferno personale, e costringendola ad affrontare una masnada – Geoffrey in testa – di uomini subdoli se non manifestamente misogini, fino a una apoteosi gore e, a scelta dell’interprete, o paranormale o paranoide.

Cos’è dunque Men? Non già o non solo, o forse non soprattutto un home invasion thriller, né nemmeno un semplice horror da casa infestata. In fondo pare invece una sorta di esplorazione di questi e quei topoi, orientata però a ritrarre le pieghe profonde della disfunzionalità di certi rapporti umani. D’altronde, i begli home invasion thriller non sono più semplici home invasion thriller da tempo, come abbiamo imparato da Funny Games (Haneke 1997 prima, 2007 poi), e le case maledette interessanti non sono più semplici case maledette, se si pensa, rimanendo sulle produzioni recenti, a Madre! (Aronofsky 2017), Vivarium (Finnegan 2019), The Room (Volckman 2019), Ve ne dovevate andare (Koepp 2020), e così ad libitum in avanti o indietro nel tempo.
Qui si gioca il succo dello sguardo di Garland, che pur identificando nella narrazione una vittima chiara e uno/dei carnefice/i inequivocabile/i, sospende il giudizio per andare un po’ oltre. In questo senso, ancora una volta, il buon horror è tale quando spaventa (qui senza jumpscare o altri espedienti) perché coglie impreparato chi guarda da un punto di vista anzitutto psicologico; in questo caso, a dire il vero, forse proprio psicanalitico, visto che il film si svolge interamente nel mostrare il doloroso percorso di elaborazione di Harper, sabotato da demoni che assumono tutti lo stesso volto, quello di Geoffrey anzitutto, così come di un fantastico prete viscidone, di un poliziotto disinteressato, di un ragazzino disturbato (tre personaggi che si presumerebbero confortevoli e che invece tradiscono le aspettative), e di un inquietante uomo nudo che passa il tempo a mutilarsi e coltivare le proprie piaghe innestandovi fogliame (da cui l’estetica più manifestamente folk del film). Un mondo di uomini perversi, tutti magnificamente resi da Rory Kinnear, il cui volto efebico è un plastico veicolo di uncanniness, che non riescono però a sopraffare interamente Harper, terrorizzata ma lottatrice fino alla fine. Fino, forse, alla liberazione, raggiunta non dopo un singolo travaglio, bensì una sequela di traumi nel trauma, resi nell’epilogo truculento che più truculento non si può. Al riguardo non diremo altro, per lasciare la disgustosa sorpresa intatta a chi ancora non ha visto il film. Ci si lasci solo aggiungere che quel disgusto è in realtà il luogo di deflagrazione del rimosso di Harper, mostrato in tutta la sua visceralità come momento necessario alla catarsi e quindi all’epurazione – o almeno alla comprensione – dello shock che l’attraversa dalla morte del compagno.

Un film dunque giustamente considerato come in qualche modo femminista, anche se, senza polemica, non immediatamente manicheo. Se è chiaro che il dolore di Harper, una Jessie Buckley pienamente nella parte, è conseguenza di una serie di abusi maschili, anche le di lei scelte e reazioni non sono presentate come immacolate. Garland, insomma, riesce nell’impresa di tenere salda una pista morale senza per questo semplificare e ridurre tutto all’estremo opposto della misandria. Non è cosa da poco, anzi è in effetti cosa da molto. Lo fa, peraltro, con una sceneggiatura rarefatta ma sempre calzante, specie nel definire quella sorta di giardino zoologico di uomini-bestie inanellando una battuta più crudele dell’altra. A partire da Geoffrey che le chiede, appena conosciuti, “e il maritino?”, con tutta la violenza implicita nel diminutivo, e le ricorda di “stare attenta a quello che scarica” nella fossa settica, che in fondo è l’allegoria definitiva della rimozione pronta a riemergere, come ci ha insegnato Coppola ne La conversazione (1974).
Non lesina poi in una fotografia magistrale (i rossi del ricordo e dell’orrore a contrapporsi coi verdi di una natura silente, impassibile testimone delle disgrazie umane che la circondano), in una regia minimale e saporitissima (i piani lunghi di lei vicino alla misteriosa galleria, i movimenti lenti ad acuire i passaggi più tesi), e – non scontatamente – in un sound design esemplare; il tappeto sonoro del film è in effetti quel protagonista silente che si pone come fil rouge durante tutta la visione: il rumore di una mela morsicata e masticata da un lato, i giochi di eco prodotti da Harper nella lunga e buia galleria – altra metafora – con la propria stessa voce, che divengono soundtrack dall’altro. Sono questi rumori veri, o solo un’altra allucinazione in un ecosistema di proiezioni mentali della protagonista (c’è qui un parallelo evidente con Memoria, Apichatpong 2021, coevo in effetti del film di Garland)? Questo è il nodo non risolto, che colloca il film in quella dimensione ambigua a metà fra esplorazione di un certo folklore britannico, come sembrano suggerire le enfasi sulle statue in chiesa, l’uomo-folletto nudo, o la scia di sangue effettivamente ritrovata dall’amica di Harper (non a caso incinta) sopraggiunta sul finale, e indagine negli abissi della mente, per cui la protagonista è un po’ come la povera neo-mamma di Rosemary’s Baby (Polański 1968), su cui rimane alla fine il dubbio sulla qualità ontologica di ciò che ha vis(su)to (era vero, o una psicosi?), o il doppio Fred/Pete di Strade perdute (Lynch 1997).
È questa incertezza di fondo, assieme con tutto quanto già detto, a sancire Men come un film pregevole e duro, che merita la nostra attenzione perché ci convoca, come collettività, a riflettere sulle nostre azioni, sulle conseguenze ataviche dei nostri ruoli, sul modo in cui trattiamo – in via definitiva – l’alterità, quale che essa sia, sugli effetti delle nostre azioni, anche le apparentemente più minuscole. Come può essere mangiare una mela appena colta dall’albero, cosa che fa Harper appena arrivata al podere, sussumendo quel peccato originale di Eva, da cui a cascata una storia millenaria – di proporzioni, è proprio il caso di dirlo, bibliche – di colpevolizzazione della donna.