Focus, Recensione, Thriller

MEMENTO

Titolo OriginaleMemento
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2000
Genere
Durata116'
Sceneggiatura
Tratto dal romanzo breve di Jonathan Nolan
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Leonard Shelby veste costosi abiti firmati e guida una vecchia Jagua, ma vive in economici e anonimi motel che paga in contanti con un rotolo di banconote. Sebbene abbia l’aspetto di un uomo d’affari di successo, il suo unico scopo è la vendetta: trovare chi ha violentato e ucciso sua moglie. Una ricerca resa ancora più difficile dall’incurabile e rara forma di amnesia di cui Leonard soffre: mentre ha alcuni ricordi della vita precedente la disgrazia, gli è impossibile ricordare quello che gli succede quindici minuti prima, dov’è, dove sta andando e perché.

RECENSIONI

Verità è una parola oltre che un concetto imponente, soffocante, eppure si nasconde nelle pieghe la sua intima natura, è il sedimento dei fatti, l'accumulo dell'insignificante che fa rinascere: ogni crime o detective story è un percorso, una via la cui direzione dovrebbe essere ad unico verso, così da assicurare una pur palliativa rigenerazione, nella speranza ch'essa sia poi purificazione. La renovatio è, da Dante in poi, un viaggio che si percorre a salire, Fato, Dio o Necessità, Intelligenza comunque lo si chiami, questo fattore X è la base su cui si plasma l'esistente, in quanto reale e relazionabile con l'azione che si promuove; privato di questo l'individuo, l'agente, non può che perdere i propri connotati umani, si riduce a meccanismo, ad elemento narrativo, a frustrazione, ed è quanto si è venuto realizzando nella letteratura contemporanea con Dostoevskij (L'Idiota) - non di investigazione si tratta ma di un carattere che qui ci interessa- e nel cinema con i ritratti di marginal men, riferimento d'obbligo Newman e Marvin in Per una Manciata di Soldi di S. Rosenberg (sceneggiatura di Malick).
Questo è senza dubbio il contesto in cui si muovono i Nolan, soprattutto Jonathan, autore del racconto originale composto durante un viaggio in treno: il sistema di esposizione narrativa è interessante quanto semplice, rompere l'immediato, il contatto contiguo dei nessi di causa ed effetto, quanto ci viene mostrato segue per logica e struttura quanto ancora deve essere visto. Alla quest, la ricerca o fuga da/di sé di Lenny, il protagonista interpretato da Guy Pearce - imbambolato forse oltre il limite della necessità - si sovrappone al livello mediato della percezione, la rincorsa dello spettatore al ricollegamento: non soffrendo del male di Leonard la memoria, i fatti devono essere ricomposti in un flusso temporale e, in seconda istanza spaziale, così da riportare il discorso, prima che la storia (distinzione questa di Chatman) all' esperienza diretta, non fratturata. Proprio come avviene per il passeggero di un treno, guardando dentro lo schermo trasparente del finestrino: il movimento degli occhi, con l'attenzione fissa ad un piano medio, è a scatti, percorre la sezione di spazio concessa alla vista in un senso, fino al margine imposto dall'intelaiatura e poi stacca per ricominciare da capo, la connessione degli spazi è evidente, per logica e ricordo, oltre che per necessità ma deve essere rimontata in unità continua, cosa che avviene solo attraverso le piccole, istantanee sovrapposizioni, un palo telefonico, una cascina abbandonata, le tende verdi di un palazzone. Così in Memento seguire lo svolgimento è anche inseguire la possibilità del Dato; "la memoria non conta nulla, i fatti sono tutto" urla il protagonista: la fissazione su tatuaggi e polaroid, fusi nella stratificazione di opinioni invalidanti, il passare da ignoto a noto produce la proliferazione di significanti i cui significati si autoeliminano nel tempo, ciò che in definitiva li ha creati li inghiotte; la memoria a breve termine non ha forza sul reale, non crea griglie interpretative ma suggestioni labili (magistrale la sequenza del "risveglio" nel mezzo della corsa: "sono inseguito o sto inseguendo"?!); la persistenza di ricordi, l'archivio mnemonico, chi non l'ha mai sperimentato?, è quanto meno inattendibile, modificabile, auto-alterante. Cosa rimane dunque se non la ripetizione? Elaborazione e nemesi lavorano, ma non a costruire, non si giunge ad una Fine ma si sopravvive in vista di una sua possibilità, eterna, continua che vive di una plurivocità indistinta ed insinuante: come per il principe Myshkin la malattia colpisce inattesa e invalida ogni possibilità di relazione e realizzazione sociale, in balìa dell'altrui odio, vendetta, finzione; nulla a dividere l'inesistente già-fatto (detto, visto) dall'inesistente futuro, se non continui risvegli, ricostruzioni sempre più falsate (forse) e la persistenza del dolore.
L'abilità di Christopher Nolan - al suo secondo lungometraggio - è tutta nella modestia di applicare un semplice meccanismo teorico nella costruzione della messa in scena, nella strutturazione dei dialoghi in funzione di un montaggio che sia la vera base di esplicitazione del tutto, senza fronzoli intellettualistici (questo poi lo fanno altri), con evidente piacere nel narrare e sense of humor che alleggerisce una struttura potenzialmente ricettacolo di esibizioni registiche od attoriali (Pantoliano è un po' sopra le righe). Si concede in sovrappiù, è da dire, l'inserzione di sequenze in b/n riferibili ad un presunto "presente" diegetico in opposizione al passato della narrazione, occupato dall'investigazione (molto sui generis, s'intende), a colori fino a far confluire nel colore le due narrazioni, ad intendere il congelamento nel passato o forse, più interessante, a rendere conto della falsificazione che ammanta l'ambito del ricordo. Anche se la sceneggiatura non copre tutti i dubbi (come mai Lenny arriva a casa di Natalie e soprattutto come fa a tornarci?) questa è una piccolezza in confronto all'esemplarità e all'intelligenza con cui è stato costruito l'intero film.

Non leggere questa recensione se non hai ancora visto il film.
Se sei al secondo rigo vuol dire che lo hai visto e do per scontato che tu sappia della malattia del protagonista e che l'opera procede al contrario (anche se nel progredire/regredire del racconto ci si rende conto di come ciascun frammento/amnesia costituisca sì il tassello di un mosaico ma anche una miniatura conchiusa in sé).
Il protagonista di Memento ha una memoria del tutto artefatta: esterna, incisa sulla pelle, è fermata su foto istantanee, su fuggevoli appunti a margine di immagini che possono significare tutto e niente, interpretabili da qualsiasi punto di vista, rivisitabili, equivoche, parziali. Attraverso questo filtro personale, canale di preferenze (ovvero: ricordo solo quello che mi fa comodo ricordare), si costruisce una vita nuova ad ogni amnesia, rimuove ciò che non gli consente di legare a un preciso fine i suoi prossimi atti. L'unico pensiero ricorrente, costante, presente seppure messo opportunamente in ombra, per illuminarsi quando risulta utile, è l'imposizione di dimenticare alcune cose. Leonard manipola il presente per assicurarsi un futuro. Altera le tracce oggi per consentirsene una lettura obbligata e vantaggiosa domani: conservare a memoria futura solo ciò che gli consentirà di continuare la sua missione, per quanto chimerica, per quanto artificiosa. Si fa forte della sua patologia per crearsi un mondo parallelo nel quale trovare uno scopo alla propria esistenza. Che lo scopo sia stato raggiunto da tempo, che di fatto non esista più conta poco: di questo egli si dimentica e non fa nulla per poterne ritenere una vestigia rivelatrice. E se qualcuno glielo rammenta (Teddy) che faccia pure (ovvero: tra un quarto d'ora non lo saprò più e sarò posseduto di nuovo dall'illusione perfetta di averne uno). Insomma l'impossibilità di Leonard di elaborare il lutto, di superare il trauma dell'uccisione della moglie è un'imperfezione del suo stato patologico di amnesico ed è vissuta, di fatto, come un'anomalia («Non riesco a ricordarmi che devo dimenticarla») ovvero: dimentico il passato prossimo/ non dimentico il passato remoto = posso ricordare lei/ non posso superare il dolore della sua perdita perché non riesco ad avvertire il passare del tempo. Dall'altro lato proprio quest'impossibilità, il non rimarginarsi della ferita interiore inferta dalla tragica scomparsa della donna, è quello che gli concede di stare al mondo perché è l'unico senso al quale riesce ad agganciare la sua vita (cercarne l'assassino e vendicarne la morte) per quanto fittizio (l'assassino non c'è più/ devo sempre inventarne uno nuovo/ devo dimenticare di averlo fatto).

I problemi di Leonard sono fondamentalmente due: non riesce a ricordare e non riesce a dimenticare, incapacità, queste, che si esplicano in ambiti differenti e fra le quali l'uomo riesce a districarsi facendo dell'una il punto di forza dell'altra.
La fine del film (l'inizio della storia) è la perfetta spiegazione della fine della storia (l'inizio del film) e la sceneggiatura riesce a fare delle sue idee fondanti (la narrazione al contrario e il discorso sulla perdita della memoria breve) non dei puri fuochi d'artificio ma spunti significativi, portati avanti con coerenza e inventiva. Sia detto per inciso, i Nolan (il fratello del regista ha scritto il romanzo che ispira il film) hanno sicuramente letto Sacks: la storia (illusoria?) del marito in amnesia ricorda molto da vicino The Man Who Mistook His Wife for a Hat e tutto il film sembra rimandare all'opera del succitato.
L'abilità profusa nello script si manifesta in un procedere all'inverso che è solo cronologico, laddove la tensione narrativa e la drammaturgia avanzano per accumulo come in un normale, lineare thriller.

Certo, il singolare percorso scelto richiede allo spettatore un surplus di attenzione per concatenare i pezzi e ricostruire il puzzle: l'imperativo ("ricorda!") sembra rivolto proprio al pubblico. Non ci metteremo adesso a leggere il tutto in chiave metacinematografica (interpretazione questa della quale, a mio parere, negli ultimi tempi non si abusa affatto, perché sempre di più il cinema parla di se stesso - se lo faccia bene o male è un altro paio di maniche-) anche se questa componente in Memento è senz'altro presente. È  infatti evidente la delega allo spettatore del compito di fare chiarezza tra la messe di informazioni fornite e l'invito ad affrontare in modo interattivo l'intero corpo del film. La scrittura, quindi, nella sua arzigogolata complessità, se è il dato più significativo del lavoro, ne esaurisce anche i motivi di interesse. L'opera, in definitiva, si risolve in una corretta esposizione per figure del complesso e raffinato teorema narrativo, ma non va oltre questo, affidandosi a un registro visivo piatto e scontato, palesandosi come un freddo e perfetto esercizio di sostanza senza un'ombra di stile. Non è certo poco, soprattutto in tempi come questi, ma  èun peccato che il regista non abbia affatto osato in quella direzione.
Se, nonostante l'avvertenza iniziale, hai letto questa recensione senza aver visto il film, ricordati di dimenticarla.

Fotografie, annotazioni, tatuaggi, mappe, targhe, vestiti, armi.
Leonard ha bisogno di oggetti concreti. Per ritrovare l'assassino di sua moglie, ma soprattutto per non naufragare nel mare delle voci, dei pensieri, delle illusioni che assediano la sua mente, il nostro uomo ha deciso di registrare ogni dettaglio, prima che l'amnesia di cui soffre lo costringa a ripartire da zero, ogni quindici minuti.
Sulla carta lo spunto del film è, in un certo senso, degno di Peter Greenaway: la vita come catalogo di elementi eterogenei, il gusto della scrittura, il corpo come volume del mondo. Ma non c'è traccia, nel film, del gioioso "enciclopedismo barocco" dell'autore di I racconti del cuscino: il catalogo non è esaltato, anzi.
Strutturato come un canonico "thriller di vendetta", Memento chiama in causa tutti gli stereotipi (i "fatti") del caso e si diverte a metterli alla prova, tentando di evidenziarne la fragilità, o almeno la natura puramente convenzionale. Si alza il sipario, ed ecco il detective solitario, l'ignoto assassino, l'amico che gli fa da "spalla", la bella di turno: le maschere di genere reggono ancora benissimo. Per infrangerle definitivamente, il regista alza il tiro: non è più sotto inchiesta solo il noir, ma l'intera narrazione cinematografica.
A parte illuminanti eccezioni (Lynch, il Tarantino di Pulp Fiction), tutti (spettatori e, quel che è più grave, registi e sceneggiatori) sembrano dare per scontato che un film debba procedere "dall'inizio alla fine", cioè dall'evento cronologicamente più lontano a quello più recente: in questo quadro i flashback sarebbero l'eccezione che, non si sa come, conferma la regola.
Christopher Nolan, sagacemente, parte dal genere cui è permesso usare ed abusare di tali espedienti "eccezionali" per scardinare l'idea stessa di tempo "regolare", concependo il suo film come un ininterrotto flashback, a sua volta collegato ad un monologo telefonico del protagonista, impegnato in una (ulteriore) rievocazione. (Fra parentesi, l'interminabile telefonata ricorda La voce umana di Cocteau, anche nell'avversione provata da Leonard per il mezzo di comunicazione che è costretto ad usare.)
Man mano che la storia va avanti (o meglio, indietro), le maschere si sgretolano, i sipari si dissolvono, si affaccia la verità. Ma quale verità? Che senso ha parlare di "reale", di "fatti", di "verità" in un mondo che non esiste se non nella nostra mente? Se siamo noi a dare continuità al mondo, non in virtù della nostra personalità (o della memoria) ma della nostra percezione, istante per istante, allora non ha senso distinguere tra passato e presente, vero e falso, fatto e sogno (o menzogna).
"Io dico di amare e mi si crede", afferma la protagonista dell'ultimo film di Chabrol. La vertigine suprema non è la perdita di memoria, o l'impossibilità di ricordare un particolare evento, ma la capacità di falsificare consciamente la nostra percezione del mondo e, poi, dimenticare di averlo fatto. Lo ha capito e messo in scena John Carpenter, nel magnifico Il seme della follia: non ci sono mostri più spaventosi di quelli creati dalla nostra mente, perché non possiamo difenderci da noi stessi. Per quanto siano "reali" i fatti, è l'interpretazione a vincere la partita.