Commedia

MELINDA E MELINDA

Titolo OriginaleMelinda and Melinda
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2004
Genere
Durata99'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Durante una cena importante, una giovane nevrotica bussa alla porta. È tragedia o commedia?

RECENSIONI

Al tavolo di un ristorante newyorchese (impossibile non cogliere echi di BROADWAY DANNY ROSE) si parla di vita e arte: partendo da un episodio di vita vissuta (volutamente confinato lontano dalla macchina da presa), un autore “serio” e un commediografo immaginano due storie (a prima vista opposte) che hanno in comune tipi umani, azioni chiave, oggetti variamente simbolici. Se per il viscido produttore di CRIMINI E MISFATTI il comico era “tragedia più tempo”, in questa nuova opera Allen afferma che non importa la distanza: è l’osservatore/creatore a determinare lo status di una vicenda. Fra una delicata commedia e un dramma esistenziale c’è lo spazio di uno sguardo: ingredienti indispensabili di entrambe le rappresentazioni sono egoismo, insincerità, sensi di colpa, solitudine, altrettanti tasselli di una sciarada irresolubile. Secondo la doppia protagonista, le lacrime di gioia hanno lo stesso sapore di quelle di dolore: la vita e l’arte sono spettacoli di marionette mosse da burattinai confusi, a loro volta soggetti a leggi insondabili e capricci distruttivi, destinati a piombare nel buio mentre celebrano i fasti di un carpe diem avvelenato.
Dopo un paio di prove a dir poco deludenti, MELINDA E MELINDA risolleva almeno in parte le quotazioni di Allen nel mio personalissimo listino valori: la trovata metalinguistica funziona meglio del previsto, lo sdoppiamento drammaturgico risulta schematico (gli opposti fronti musicali, Bartók e Stravinsky contro il jazz, e artistici, teatro vs. cinema) ma non meccanico, grazie a uno script che non si accontenta di sfornare gustose battute ma disegna figure sfaccettate (nelle parti drammatiche) o piatte (in quelle comiche), comunque vivaci e interessanti. Non mancano le autocitazioni ai limiti del riciclaggio (alcuni passaggi di dialogo e scene come quella dell’ippodromo, ricordo di MIGHTY APHRODITE) ma, inserite nel contesto dell’azione (l’improvvisazione di una sceneggiatura su un tema dato), non stonano affatto. Se è superfluo rilevare l’eleganza tecnica del prodotto (la fotografia è firmata Vilmos Zsigmond), non si può non lodare la cura con cui Woody, assente dal cast, segue i suoi attori: alle passerelle di divi più o meno clamorosi degli ultimi film si sostituisce un gruppo di giovani talenti (la più nota è Sevigny, l’“intruso” è il veterano Wallace Shawn di MANHATTAN e RADIO DAYS) la cui scioltezza nel calarsi nel classico mosaico di levità e nevrosi lascia deliziati. Scelta per sostituire Winona Ryder (la cui copertura assicurativa sarebbe risultata troppo costosa per il budget del film), Radha Mitchell dà vita con pari slancio alle due Melinda (le riesce meglio quella tragica) e dimostra un temperamento, una grazia e un’(auto)ironia che ne fanno una promessa a dir poco fulgida.

Melinda e Melinda mette a nudo, se ancora ce n’era bisogno, la sconfortante condizione di un cineasta costretto (dalle sue nevrosi o dal suo portafogli, non importa) a sfornare un film all’anno, anche se non sussiste alcuna giustificazione artistica, anche se il mercato comincia a disinteressarsene persino in Europa, il salvagente che in passato ha evitato al cineasta fiaschi clamorosi (molti immeritati, ma parliamo dell’età della pietra). Oramai il teatrino metropolitano dell’autore è allo stremo (non basta un afroamericano – il primo della sua filmografia a reggere un ruolo di un qualche rilievo – a dargli la spruzzata di novità) e l’idea non malvagia (anzi) su cui si basa questo film (il giocare sul doppio commedia-dramma) ne sottolinea ancor di più lo sfinimento: perché è l’unica che può vantare la pellicola (Allen va a risparmio da anni, non brucia mai più di una trovata a lavoro sennò si trova in difficoltà col successivo – per la cronaca: il dopo Melinda è stato già girato -) e perché la doppia partitura suona stonata in entrambi i registri (il dramma è inesistente, la commedia non fa ridere). L’ibrido binario che Allen ci propone è sconsolante almeno quanto un riciclo (correttamente segnalato dall’innamorato Selleri) di situazioni – battute - personaggi che sconfina nel puro imbarazzo: le dinamiche sono usuratissime e, quanto al contenuto, se la tragedia dovrebbe avere i suoi punti di forza in alcuni monologhi di noiosa insipidezza, la commedia è robetta da debuttante al Sundance che alleneggia senza convinzione. Il risultato è di rara pochezza e il fil rouge teorico - la discussione al bar in cui si muovono le pedine delle due narrazioni – didascalia pesante e banale. La leggerezza, l’ironia, il costrutto sono evaporati da anni, la puzza di rancido è dappertutto.