Drammatico, Fantascienza, Focus, Streaming

MEGALOPOLIS

TRAMA

Un brillante architetto vuole ricostruire New York come un’utopia dopo un disastro devastante, ma incontra la resistenza del sindaco, che insiste sullo status quo attuale.

RECENSIONI

Il Cinema è ovunque, in Megalopolis: lo vediamo dipanarsi in un incedere sfrangiato, interrotto, e manifestarsi nella magnificenza a-temporale che Coppola conferisce alle immagini e alle loro interne, e complesse, relazioni.Nel corso della visione, appare evidente come per lo spettatore tutto scorra come un continuo, sconsiderato, cascame: filmico, si è detto (si parte dal Metropolis di Lang per passare a William Cameron Menzies, arrivando poi alle forme più smaccatamente mutanti dell’immagine digitale), e letterario (Crispo e Marco Aurelio, ovviamente; ma anche Shakespeare, Hermann Hesse, Petrarca, Saffo…), come se nel disegno coppoliano il processo del racconto dovesse necessariamente farsi piccolo, o frantumarsi in piccoli pezzi, per lasciare spazio alla suggestione archetipica delle infinite figure inscritte all’interno del film.
In questo senso, nell’ultima opera del cineasta americano tutto è archetipo (e suo rovesciamento decadente: lo vediamo sia sul piano simbolico, nel crollo della Giustizia e delle tavole della Legge, sia su quello della rappresentazione, come menzionato in precedenza), e la materia che ne scaturisce supera la dimensione orizzontale della Storia per uscire dal tempo e, di conseguenza, per cristallizzarsi nella mente come forma pura, eterna. Il Cinema, come evocato poc’anzi, nella sua espressione più liberatoria e pervasiva, al di là dei costrutti narrativi e delle apparenti contaminazioni spurie; un’utopia della visione, insomma, che possa riportare lo spettatore a un’esperienza di autentica illuminazione per immagini, parole, suoni.

Naturalmente, è il soggetto stesso a contenere in limine il germe di quanto espresso; una fiaba (come ci indica il sottotitolo) che descrive per l’appunto una possibile, e alternativa, traiettoria di quella congiura di Catilina che sul piano storico mai poté compiersi. È infatti il protagonista che ne porta il nome, interpretato da Adam Driver, a incarnare tutti gli elementi conflittuali che muovono la vicenda: architetto rivoluzionario, creatore di un nuovo materiale costruttivo animato da forze sottili, invisibili, Cesar Catilina immagina e progetta un concetto di città che possa sovvertire lo spirito del tempo al quale egli stesso appartiene (proprio il Tempo, e la necessità di trascenderlo, sono le vere ossessioni del film, a partire dalla prima magnifica scena), mentre dall’altra parte il sindaco Francis Cicero (Giancarlo Esposito), saldamente ancorato al presente e ai suoi baluardi (nella fattispecie, il cemento e l’acciaio), cercherà in tutti i modi di contrastarne l’ascesa. Questa frizione, tuttavia, è appena superficiale, al punto tale che il personaggio di Catilina appare via via oscurato da ombre, ambiguità e fantasmi del passato: sospeso tra l’anelito al cambiamento e l’influenza di una cultura corrotta e decadente, Cesar rivela progressivamente di essere, essenzialmente, un figlio ribelle di quest’ultima, e l’intera storia si fa espressione del disperato tentativo di raggiungere una possibile purezza in un universo in cui l’innocenza e il Bene sono, di fatto, impossibili.
A questo proposito, è davvero curioso come Megalopolis abbia molto a che spartire con un’opera cinematografica coeva, opera nella quale, non a caso, il protagonista è sempre un architetto (giacché l’architettura è la forma d’espressione che maggiormente impatta, e definisce, lo spazio vitale dell’essere umano sul pianeta), ovvero The Brutalist di Brady Corbet. Se in Corbet, però, lo spirito del Male che permea il Mondo non lascia ai personaggi, nonostante l’apparente sforzo, alcuna possibilità di redenzione, nel film di Coppola il segno è opposto e, in qualche modo, armonizzato e spalancato verso una vertiginosa, e realmente trasformativa, rivoluzione dello sguardo.

Vogliamo tutti un gran bene a Francis Ford Coppola e siamo molto contenti che abbia finalmente portato a termine questo progetto ultraquarantennale. Ci ha messo (tanti) soldi suoi e, in barba a tutto e a tutti, ha fatto probabilmente il film che voleva fare: testamentario, libero, anarchico. Autarchico, meglio. Il problema è: che film è quello che voleva fare? E gli è venuto fuori davvero come lo aveva pensato? Intanto, in Megalopolis non c’è niente di Mega-. Non c’è grandeur, neanche visiva: il digitale si mostra sempre per quello che è, abiurando il come se in favore del come, e anche nelle sequenze teoricamente votate allo spettacolo, tutto è depotenziato, soffocato nell’inquadratura. Si veda la passeggiata aerea sulle travi: siamo in cielo, a dominare la città, ma in realtà c’è foschia e manca l’aria, in questo campo ipoteticamente lunghissimo strippato in un totale dall’atmosfera posticcia. E’ l’epico che diventa intimo, il Grande che si (auto)ridimensiona nel piccolo, (facile?) metafora del Vecchio Gigante del Cinema che si arrende di fronte a tutti: di fronte al nuovo che avanza (la figlia di Cesar Catilina, nell’ultimo fotogramma, rimarrà l’unica cosa viva in un tempo cristallizzato: il futuro è suo?), a un vecchio ancora più vecchio di lui (Francis Cicero) e alla demagogia populista in grado di incantare/abbindolare il pubblico (Clodio Pulcher). Il Maestro che collassa su se stesso e mostra la propria inadeguatezza, palesando quanto davvero utopica fosse la sua Utopia e quanto i suoi tempi siano finiti (rectius: iniziati a finire) da un pezzo, diciamo pure dal magnifico fallimento di One From The Heart (1982) dopo il quale Coppola ha girato quindici film, alcuni dei quali anche belli (o bellissimi) ma non più rilevanti, con la vulgata che lo fissa nell’ambra come regista de Il Padrino e Apocalypse Now. Tornando al suo alter ego: un premio Nobel (Oscar) che non vuole più nessuno.

Sì, si diceva, ma il film? Il film, diciamo, “in sé”, al netto delle letture (tutte legittime, tutte necessarie, per carità) che se ne possono dare, com’è? Il film in sé èdifficile da digerire. Il solo piacere estetico che se ne può ricavare nell’atto della fruizione è, appunto, metaestetico, perché la visione non mediata o autoriflessiva di questa visione coppoliana è faticosa e, per certi versi, estenuante. Il primo senso dell’operazione, il parallelismo tra la Repubblica Americana e l’Antica Roma, è di fatto spiegato, scolpito su marmo, a inizio proiezione:

OUR AMERICAN

REPUBLIC IS NOT

ALL THAT DIFFERENT

FROM OLD ROME.

CAN WE

PRESERVE OUR PAST AND

ALL ITS WONDROUS

HERITAGE?

OR WILL WE TOO

FALL VICTIM, LIKE OLD

ROME, TO THE

INSATIABLE APPETITE

FOR POWER OF

A FEW MEN.

Bene. Il film parla di questo. Subito dopo viene introdotto quello che è un elemento narrativo, apparentemente, importante: la capacità di Cesar di fermare il tempo. Sta per cadere da un cornicione, dà un comando vocale al Mondo e tutto si arresta tranne lui ma, ci si chiede subito, perché non precipita comunque? Di fatto, se è il solo elemento che conserva la capacità di muoversi, perché è rimasto sospeso? Ecco, questo incipit è una buona rappresentazione di cosa non funziona in Megalopolis, o meglio, di cosa può rendere indigesto Megalopolis: la sua mancanza di coerenza/senso, il suo barcamenarsi tra registri inconciliabili, tra il dire e il non dire, tra la didascalia e lo slancio criptico, tra l’ingenuo e il profondo, senza preoccuparsi di scivolare (e spesso cadere) nei territori del semplicemente confuso e del semplicemente imbarazzante. Certo, si può decidere di magnificarlo, di gioire per la libertà assoluta che si è auto-concesso Coppola, di leggere in Megalopolis, come si diceva in apertura, un testamento monumentale e struggente anche (soprattutto) nel suo essere così fragile, il proverbiale colosso dai piedi d’argilla. Si può fare tutto, è legittimo, non ho nulla in contrario, ci mancherebbe. Per certi versi, potrebbe anche essere il Film dell’Anno.

Io però non ce la faccio. Non che non ci abbia provato: dopo due visioni, ho dovuto constatare, non senza rammarico, che entrambe le volte sono uscito dalla sala annoiato, infastidito, intristito. Megalopolis mi è sembrato un film davvero inaccettabile, sbagliato da qualunque angolazione si decida di guardarlo: banalissimo quando (si capisce chiaramente che) cerca di dire qualcosa, incomprensibile (almeno, per me) quando si intuisce che forse vorrebbe dire qualcos’altro (il tempo che si ferma, elemento presentato come cruciale, al netto delle incongruenze interne… perché?), goffo negli slanci poetici (la manona che afferra la luna), con parentesi (comiche?) raggelanti (la sequenza della finta erezione di Voight/Crasso conclusa con la freccia nel culo) e passaggi che lasciano, come minimo, perplessi: l’idea più geniale – e caratterizzante – della città utopica fatta della materia di cui sono fatti i sogni (il Megalon), sarebbero dei marciapiedi mobili? Una trovata per bambini di Gianni Rodari, datata 1962, contenuta nella 62esima delle sue 70 Favole al telefono, intitolata proprio “Il marciapiede mobile”?
E il finale? Come si è già accennato, in un mondo in freeze frame, la piccola di Cesar e Julia rimane l’unico essere vivente vivo, non immobilizzato, forse a significare che il futuro dell’umanità/Cinema è suo, ossia delle nuove generazioni. E però: se gli altri sono tutti intrappolati nel tempo, compresi quelli che ne hanno (o ne avevano) il controllo, chi lo farà ripartire, il tempo? Farà tutto da solo? O dobbiamo dar(n)e una lettura simbolico/metaforica, ossia che il futuro è delle nuove generazioni che però hanno ancora bisogno dei genitori, senza l’assistenza dei quali moriranno (letteralmente) di stenti? Boh.
Proprio per il profondo rispetto che si deve a un indiscutibile Maestro, credo che l’atteggiamento più onesto nei suoi confronti sia quello di essere, appunto, onesti fino in fondo e io, nel mio piccolo, ho trovato il suo ultimo film onestamente inguardabile e indifendibile.