TRAMA
Maverick deve trovare 3.000 dollari e partecipare a un torneo di poker. Sul suo cammino, incontra una ladruncola e un uomo di legge nobiluomo: bluff e buffoneria sono il loro mestiere.
RECENSIONI
Maverick significa “uomo libero”. La libertà della serie tv originale (1957-1962) e di quest’adattamento cinematografico dissacra i cardini mitopoietici su cui l’epopea western americana si è costruita: il tono epico e il machismo, l’eroismo e le fanfare del buonismo (spassosa la scena in cui Maverick si finge vittima sacrificale dei nativi americani). Il personaggio creato da Roy Huggins evita, per quanto possibile, la violenza, preferendole il sarcasmo, la burla, la parodia, il gioco (del poker): Mel Gibson (in una versione che ricorda i tipi di Terence Hill) ci mette molto del suo (e di Richard Donner) Arma Letale (citato nell’incontro con Danny Glover: per un attimo, i due si riconoscono) fra scatti di follia e adrenalina e, a rendere più saldi i contatti con il serial del piccolo schermo, c’è il Maverick originale James Garner. La particolarità di quest’operazione ingranata da William Goldman (sceneggiatura con divertimento intelligente, per quanto priva d’idee e meccanismi inediti) sta in un microcosmo di soli imbroglioni e canaglie dedite a bluff e stangate, sorta di estensione parossistica di I Corsari del Grande Fiume: passo dopo passo, il racconto si trasforma in una colossale messinscena ad opera di “attori” che levano la maschera a sorpresa (molti camei, fra sodali del regista, glorie televisive e Waylon Jennings), sortendo l’effetto di colpi di scena a ripetizione, alcuni dei quali prevedibili, previo studio dell’avversario al tavolo da gioco. La vita, insomma, non è altro che una partita a poker, infingarda solo perché fra i contendenti ci sono parecchi bari, simpatica perché è un gioco, ricca di tensione ma capace, anche, di donare soddisfazioni e rivincite: l’importante è non dare troppo peso al denaro, appassionandosi al balocco in sé. Anche gli “indiani” non sono quel che sembrano (per quanto divertente, però, la caricatura di Graham Greene è pesante) e vale sempre l’adagio “L’amor non è bello se non è furfantello”: in alcuni momenti, quelle di Mel Gibson e Jodie Foster ricordano le mitiche schermaglie fra Cary Grant e Katherine Hepburn. Si può dire tutto di Richard Donner, ma non che sia sprovvisto di mestiere e che non abbia ben capitalizzato il successo ottenuto dalle pellicole dirette: ha bazzicato, bene, praticamente tutti i generi, e questo è il suo primo (anti) western, se si esclude l’episodio ‘Showdown’ girato per Racconti di Mezzanotte.