TRAMA
Luca, agli inizi della convivenza con Veronica, indaga su un omicidio a sfondo sessuale e si ritrova immerso in uno strano mondo.
RECENSIONI
Il ventre marino restituisce un satiro danzante, simbolo di vizio dionisiaco; in apertura una dichiarazione d’intenti, un bagno lynchiano nell’other side, il velo squarciato sulla sponda nascosta. La perversione alberga dietro le placide simmetrie di un acquario, nella coppia il germe del dubbio esplode dal nulla – l’assurda crisi tra Luca e Veronica, strumentale e progressiva all’impazzimento dell’uomo -, come una lebbra che spande il suo lezzo e sfuma nelle strade del sogno. Il viaggio di Luca nella sua stessa psiche alterna neri assoluti a bianchi abbaglianti, diventa un tunnel uterino che libera, a livello fisico, una fitta teoria di corrispondenze (la mano – la prostituta che si copre il volto, lo scambista che sculaccia la moglie, il contatto corrosivo col satiro in sogno -, la vista – Perché chiudi gli occhi?, così Luca a Veronica nell’atto sessuale -, i seni, il fallo…) magnificamente assecondato dalle crudeli volute di una regia in movimento. Contro il cinema italiano della buonanotte Roberta Torre regala un’ossessione sincera sottoforma di incubo dai colori del buio, con la cupa sospensione di Twin Peaks e la stringente lucidità di Luci nella notte (un altro percorso, concreto e/o immaginario, alla cui meta è arduo ritrovarsi), e la critica ha sparato su questo film: sarà perché ignora il cappio dell’intreccio, non ha inizio né fine, consegna durrenmattianamente l’omicida a metà e si concede totalmente al dato onirico, in un finale d’antologia a tanti livelli, che rigira tra l’altro la sciabola nell’eterno, doloroso conflitto uomo/donna con paurosa efficacia. Interpreti maiuscoli, da Lo Cascio stravolto alla sfuggente Mouglalis, fotografia da camera oscura di Daniele Ciprì e infallibile base ipnotica di Shigeru Umebayashi. Una perla nera, più sfrontata e splendente dei sorrisi contraffatti che siamo condannati ad ingoiare.
È bello il ritmo sincopato di Mare Nero, che rifiuta la linearità e la trasparenza. È benvenuta la ripulsa verso caratteri accomodanti e amichevoli in favore di personaggi scostanti o antipatici, solitari, poco disposti al sorriso ruffiano, all’autobiografia scandalistica o spirituale, e meno ancora alla futile conversazione da tè delle cinque. È avvolgente il gioco di luci e di ombre nel quale siamo da subito immersi, e che ci persegue nell’intero film, così diverso dalla luce meridiana e soffice in cui naviga il cinema nostrano dove tutto si aggiusta o si arrangia (e che Di Nicola pungente qualifica “della buonanotte”).
Quanti sono gli italici cineasti che rifiutano categoricamente di farci la morale su ossessioni e perversioni (da intendersi nel senso neutro di eccezioni alla norma prescritta dalla scientia sexualis)? E quanti sono i registi maschi eterosessuali che osano immergersi fino ai capelli nel torbido del desiderio maschile, invece di raccontare in modo sovente stucchevole di sentimenti e buone intenzioni?
Il superfluo, il dolcificante e il fervorino non piacciono a Torre, e le siamo ben grati. È come veder squarciare un velo, nelle nostre provinciali contrade, sul santuario della coppia innamorata, che frana non sotto il peso d’un passato psicanalitico (donne stuprate, orfani bisognosi di carezze, sensi di colpa laceranti. Che palle!) o filodrammatico (la vecchia fiamma che riemerge, il nuovo amore che fiorisce. Che palle bis!) ma divorata dall’interno dalla stessa dinamica che la fa vivere. Desiderio e Buone Maniere non vanno d’accordo, Eros e Societas si guardano in cagnesco. Ma si può sempre rinnovare l’illusione, trovarsi a cena e provare a crederci ancora.
Solo un eccesso di gioco simbolico, più orecchiato che necessario, nuoce a un film coraggioso e ben affidato a Mouglalis, mistero conturbante che si nega all’addomesticamento, e a Lo Cascio, che stavolta si è impegnato a fondo con esiti discreti, ma senza impedirci d’avvertire un che d’imparaticcio nella recitazione (impietoso termine di confronto, ma lo sarebbe per chiunque, la fulminea e memorabile apparizione di Massimo Popolizio).
Visivamente Roberta Torre osa, è indubbio. Scompone i corpi, rasenta le superfici, esplora lo spazio in profondità. E, soprattutto, vacilla insieme al suo personaggio: non si tratta di pedinamento coatto o pruriginoso voyeurismo, ma di uno sguardo che aderisce morbidamente all’immersione nel “dionisiaco” dell’ispettore Luca Moccia (Luigi Lo Cascio). Morbidamente e incostantemente: affascinano le leggere resistenze a seguire passo dopo passo il percorso di Luca. Di tanto in tanto la cinepresa si arresta, smette di tallonare l’ispettore e lo lascia allontanare sullo sfondo, osservandolo percorrere un corridoio sotterraneo: lo sguardo recalcitra, resiste, pensa. Non capita spesso al cinema italiano di pensare attraverso la macchina da presa, di renderla uno strumento (auto)riflessivo e il solo fatto che Mare nero riesca a farlo non può che colpire positivamente. Roberta Torre wongkarwaieggia chiassosamente (complici le sinuose melodie di Shigeru Umebayashi)? Non esagera affatto, anche perché corregge la sensiblerie wonghiana con tocchi di frontalità erotica à la Tsai Ming-liang (impossibile non pensare a Il fiume) e con figure sfacciatamente fassbinderiane (la maîtresse del locale notturno su tutte). In più indovina una minuscola sequenza da polar di classe, come quella del sequestro e della ricettazione di una piccola partita di cocaina. Ma dove Mare nero compromette quasi del tutto la propria credibilità è sul versante drammaturgico: il trattamento ellittico e misurato della materia narrativa è clamorosamente contraddetto da dialoghi fastidiosamente forzati (la maggior parte delle conversazioni tra Luca e Veronica sono da antologia dell’improbabile) e da una recitazione spaventosamente artificiosa. La Mouglalis e Lo Cascio non soltanto non sembrano in parte, ma risultano tremendamente impostati perfino quando si lavano i denti o si rotolano sul letto accapigliandosi. Il problema purtroppo non si limita a loro: chiunque entri in una qualsiasi delle inquadrature assume automaticamente posture rigide e affettate, adeguando la recitazione all’innaturalezza dell’atteggiamento corporeo. Il culmine dell’artificiosità si raggiunge nelle sequenze ambientate nella centrale di polizia, dove gli attori ripresi frontalmente ostentano una teatralità che, anche se fosse voluta, risulta francamente irricevibile, finendo per disintegrare la credibilità residua della pellicola. È un autentico peccato, ché, a tratti, Roberta Torre mostra di saper dipingere squarci di inquietante enigmaticità a colpi di cinepresa. Restano frammenti di cinema prezioso e la sensazione di un film ferocemente irrisolto.