TRAMA
Un figlio star minorenne under addiction, una madre manager, un padre guru cialtrone, una figlia piromane tornata dalla detenzione. E una star ossessionata dalla madre, un autista di limousine wannabe attore e scrittore, Carrie Fisher. Hollywood. E i fantasmi.
RECENSIONI
Dopo Spider, dopo A Dangerous Method, Cronenberg prosegue nella sua avanzatissima riscoperta della psicanalisi. E lo fa con un film di impressionante densità, che dischiude il segreto della sua trasparenza solo dopo molteplici visioni. In superficie, c'è la satira di Hollywood: una sceneggiatura al vetriolo di Bruce Wagner piena di ambiziosi giovinastri che guidano limousine per mantenersi, bizzose baby-star, attempate celebrità alle prese con l'oblio incipiente e la nevrosi, ciarlatani che succhiano soldi ai ricconi del cinema con improbabili terapie, e via di seguito. In profondità, non c'è nulla. Cronenberg conosce la psicanalisi abbastanza a fondo per sapere che è questa, la sua vera lezione. E quindi, dopo aver constatato che in profondità non c'è nulla, dobbiamo, alla velocità della luce, tornare in superficie per vedere su di essa in cosa consista davvero questa operazione. In buona sostanza, si tratta di distornare la satira di Hollywood fino a trasformarla in ironia. Maps of the Stars, in altre parole, ci mostra Hollywood come luogo di un'abissale, fatale ironia che ci concerne tutti.
Qual è l'ironia di Hollywood? Fondamentalmente, quella per cui nel momento stesso in cui tentiamo di ripetere la nostra vita su uno schermo, ci accorgiamo che non ci è possibile farlo. E non ci è possibile farlo perché la ripetizione ci precede. Il film comincia con una ragazzetta che sbarca a Hollywood. Ma poi scopriamo che a Hollywood ci è già vissuta per anni in precedenza - e dunque ritorna, non arriva. L'attrice nevrotica chiamata a interpretare il ruolo che fu di sua madre morta anni prima (che le appare come un fantasma ripetere battuta dopo battuta la sua stessa vita, la quale peraltro va configurandosi giorno dopo giorno come una ripetizione di quella della madre), alla fine non riuscirà a recitare in quel film. In psicanalisi, la ripetizione è legata a doppio filo all'Edipo: è per la ripetizione che passa la risoluzione del trauma originario. Ed ecco dunque l'ironia suprema: in questo mondo fatato/stregato (Hollywood) dove tutti sembrano avere un trauma incestuoso dietro le spalle, l'unica vera discendenza che prosegue indisturbata generazione dopo generazione non è (come si conviene, e come celebra da un secolo la drammaturgia hollywoodiana tradizionale) quella garantita dall'edipica proibizione dell'incesto, ma è quella dell'incesto stesso, infinitamente riproposto con variazioni sempre nuove. E intorno all'incesto si aggruma un tessuto di simmetrie e corrispondenze tra personaggi e situazioni totalmente spazializzato. Da un punto all'altro della storia i rimandi e i parallelismi corrono fino ad annullarla: fino, cioè, a fare scomparire qualsiasi velleità drammaturgica (ovvero ogni organizzazione del tempo finalizzata ad acciuffare e convogliare l'attenzione dello spettatore) dietro a questa fittissima ragnatela intelaiata intorno al motivo dell'incesto. Si veda il modo in cui Cronenberg spegne (proprio come si spegnerebbe una sigaretta, sotto le scarpe) il potenziale emotivo dei capovolgimenti del racconto.
Perciò, in Maps of the Stars la parola chiave è “maps”, non “stars”. Il mezzo truffatore terapista pseudo-junghiano, proprio come il suo maestro in A Dangerous Method, ha l'unico torto di avere troppa ragione: tenta di liberare il soggetto dal trauma estraendolo dal suo poco rilevante corpo, ma la sua ripetizione-risoluzione, molto al di là di qualsiasi teatrino in cui il soggetto voglia pensarsi al centro, è il tessersi grafico, orizzontale, di una ragnatela che va formandosi tutto intorno al soggetto inghiottendolo. Per questo, nel punto culminante dell'intreccio, la diabolica giovane assistente della star picchia in testa con una statuetta-premio lo spettatore stesso, che si presume per definizione al centro dell'universo che vede. Si “identifica”, il poveretto.
La sceneggiatura invenduta di Bruce Wagner, “finita” nel romanzo “Dead stars” del 2012, è una commedia con soap opera, sul dietro-le-quinte di Hollywood, tanto acida quanto risaputa, popolata da insopportabili e disturbate baby-star, dive attempate pronte ad esultare per la morte di un bambino se fa loro ottenere una parte, manager remissivi al cospetto di capricciose macchine macina-soldi, guru della guarigione che non hanno mai curato se stessi. Non è la prima volta che l’opera dello scrittore incrocia quella del regista canadese: Cronenberg era stato produttore esecutivo del suo I'm Losing You e la dimenticata miniserie televisiva Wild Palms (1993) di Wagner, prendendo le mosse da Videodrome, dava vita ad un universo che viene ripreso e citato in questa prova in cui Cronenberg, al solito, innesta il suo virus: una sublime traccia da melodramma sirkiano con incesto, in bilico fra i suoi studi sulla violenza (memorabile la soggettiva della vittima del martello, impugnato da un carnefice che la osserva fra stupore e curiosità) e gli horror maledetti-macabri-scientifici del passato (i fratelli dello scandalo, i loro rituali, la genetica implacabile). Ma sono follie individuali ed ereditarie che non allargano la prospettiva della mappa delle stelle di Wagner (è come se il suo Su e Giù per Beverly Hills fosse riproposto dal Brian Yuzna di The Dentist), i segni di complesse allegorie restano uno specchio per le allodole, ovvero un discreto film di genere mascherato da ambiziose arie Cosmopoli(s)ite, film sui “potenti” della società odierna, apertamente citato dalla presenza di Robert Pattinson (autista e non più passeggero di limousine), nel ruolo autobiografico del primo romanzo di Wagner, “Forza Maggiore”. Ciò nonostante, si resta ammaliati dalla direzione delle interpretazioni, dalle intriganti trame ad incastro, dal mix di grottesco e disperato, di brutalità ed assurdo.