
TRAMA
In una foresta vicino a un villaggio costiero thailandese, affacciato sul mare in cui sono annegati migliaia di rifugiati Rohingya, un pescatore del luogo si imbatte in un uomo ferito e privo di sensi. Dopo aver portato in salvo lo sconosciuto, che non parla una parola della sua lingua, gli offre amicizia e lo chiama Thongchai. Quando però il pescatore scompare all’improvviso in mare, Thongchai incomincia lentamente a impadronirsi della vita dell’amico: della sua casa, del suo lavoro e persino della ex moglie…
RECENSIONI
L’opera prima del thailandese Phuttiphong Aroonpeng, vincitore degli Orizzonti veneziani 2018, potrebbe prestare il fianco, suo malgrado, ad una limitante incomprensione di fondo: l’ombra lunga del celebrato connazionale Apichatpong Weerasethakul è un fardello pesante da cui smarcarsi. Ma bollare Manta Ray come uno sterile calco non farebbe giustizia ad un esordio vibrante e compiuto, che pur emergendo da una tradizione cinematografica dai connotati espressivi ben definiti, riesce a sviluppare la propria riflessione in una direzione del tutto personale. Lo fa al crocevia fra proposizione politica e parabola esistenziale, distendendo un’ambigua indagine etica sull’eterno dilemma dell’Altro: la fascinazione dell’intruso, al contempo inquietante e sensuale, irresistibile e distruttivo.
Nel folto della foresta, un pescatore trova un uomo ferito. È un rohingya, esule in fuga dalle persecuzioni. Non parla la lingua del pescatore, che lo accoglie comunque a casa sua e lo cura con smisurata dedizione. Sono due uomini soli: il profugo ha perso tutto, il pescatore è stato abbandonato dalla moglie. Vivono immersi nel silenzio di una vegetazione languida e spettrale in cui l’uno si abbandona, si fida e si affida all’altro. C’è un vuoto reciproco da colmarsi: la cura del corpo e dell’anima altrui comincia a palpitare lungo le corde di una sottile armonia omoerotica in cui complicità, compassione – l’esserci per l’altro – tessono i fili di un’intesa profonda. Ma un giorno il pescatore scompare in mare. Solo nella casa che hanno diviso, per il profugo diventa facile prendere possesso della vita dell’altro, spazio dopo spazio, oggetto dopo oggetto. È un processo di sostituzione, copiatura, raddoppiamento, un assumere finalmente una forma per lui senza lingua, carta bianca senza prospettiva. Prenderà il suo posto di lavoro al porto. Sedurrà la moglie che rientra a casa. Si tingerà i capelli dello stesso colore dell’amico scomparso. Manta Ray assume così, sorprendentemente, i toni del noir rarefatto, segnato da un turbamento inquieto, disturbante. Al centro, una posizione etica problematica e lasciata senza risposta – quella del profugo – tanto spregevole quanto inevitabile, o perfino condivisibile.
Fino a quanto il pescatore non fa ritorno a casa, riapparendo come dal nulla. È qui che Manta Ray si pone definitivamente come oggetto cinematografico deflagrante, enigmatico, inconsolabilmente disperato. Il film esplode in un finale infinito, astratto nella composizione ma incredibilmente preciso per immediatezza emotiva, che trova nella strabordante estensione temporale una stupefacente chiave espressiva. Turbato e stordito dal ronzio bruciante della vergogna, il profugo compie il destino di chi è per sempre condannato a fuggire: si consegna alla natura e, leopardianamente, vi si lascia inghiottire.
